martedì 22 maggio 2012

Francesco Petrucci, conte di Carinola, e la congiura dei baroni

Carinola, Palazzo Petrucci


Al tempo della congiura dei baroni, le sorti dell'Italia erano nelle mani dei principi: il re di Napoli, Ferdinando o Ferrante, i papi -più sovrani temporali che guida morale della Chiesa-, Lorenzo de' Medici a Firenze, Ludovico Sforza a Milano, i duchi di Savoia e poi gli Estensi, i Gonzaga, i Malatesta, i Saluzzo, i Bentivoglio, i del Carretto... Nella Repubblica di Venezia il potere era nelle mani del Doge, controllato dal Consiglio dei Dieci, espresso dal patriziato iscritto nell'Albo d'Oro. Pace e guerra dipendevano in larga misura dalla personalità dei singoli signori, spesso dai loro capricci, dalle loro fobie. Perciò la nobiltà italiana era un intrigo di matrimoni e di delitti: i due strumenti fondamentali per annodare e sciogliere amicizie personali e alleanze politiche, fare e disfare dinastie e Stati.
Re Ferrante (o Ferdinando) d'Aragona, proclamato salvatore dell'Italia e dell'Europa per aver cacciato i Turchi da Otranto (1481), godeva fama di giudice d'Italia quale continuatore della politica di equilibrio scaturita dalla pace di Lodi (1454). Giunto al trono di Napoli nel 1459, poco più che trentenne, sin da quando ne aveva dodici s'era immerso nella vita militare e nelle lotte per il potere, al seguito del padre, Alfonso il Magnanimo.
Cervello e braccio della politica di re Ferdinando furono il suo segretario, Antonello Petrucci, asceso da umili origini a principale consigliere del sovrano, anche grazie alla fine educazione umanistica impartitagli da Lorenzo Valla e dal Pontano, e il conte di Sarno, Francesco Coppola, geniale organizzatore del commercio napoletano, socio del re in numerosi affari e dal quale ebbero impulso la lavorazione della lana e della seta, giunta ad assicurare il pane a una buona meta dei napoletani.
L'operosità dei due uomini venne ripagata da re Ferrante con la concessione di monopoli commerciali e titoli nobiliari. Dei figli di Petrucci, i primi due divennero conte di Carinola e conte di Policastro, il terzo arcivescovo di Napoli, il quarto priore di Capua. Proprio questi fedelissimi uomini del re nel 1485 presero l'iniziativa di una nuova grande rivolta feudale, detta per tradizione «congiura dei baroni».
Tra i «congiurati» si contò il meglio della feudalità meridionale:
Giovanni Caracciolo, duca di Melfi,
Pietro di Guevara, gran siniscalco,
Andrea Matteo Acquaviva, principe di Teramo,
Angilberto del Balzo, duca di Nardò,
don Antonio Genterelle, marchese di Cotrone,
Giovan Paolo del Balzo, conte di Nola,
Gaetano di Morcone,
Carlo di Melito e decine di altri feudatari che avevano alle spalle secoli di lotte per la difesa dei loro privilegi. Insieme a loro Francesco Petrucci, conte di Carinola e Giannantonio Petrucci, conte di Policastro, i figli di Antonello Petrucci.

La vera testa della congiura fu però la famiglia dei Sanseverino, che da secoli covava il tarlo della ribellione. Duecento anni prima, i Sanseverino s'erano messi contro l'imperatore Federico II, che li aveva sterminati. L’unico sopravvissuto si schierò con gli Angioini: ma i suoi discendenti non tardarono a combattere il ramo durazzesco degli Angiò.
I congiurati contavano su due aiuti fondamentali: il papa e la città dell'Aquila, la seconda del Regno, ove i Camponeschi guidavano la rivendicazione comunale di antiche «libertà» (cioè privilegi) contro il potere centrale. All’azione i baroni furono spinti dal timore di perdere l’ultima possibilità di rovesciare il re. Il 7 agosto 1484 in una locanda tra Bagnolo Mella, presso Brescia, era stata, infatti, stabilita la pace tra la Repubblica di Venezia e il duca di Ferrara, Alfonso d'Este. La «guerra di Ferrara» — che aveva messo in luce l'efficacia delle diaboliche artiglierie ducali contro il naviglio della Serenissima — aveva scosso gli equilibri della penisola, scatenando gli appetiti: un rischio troppo grosso per tutti, soffocato dall'intesa tra Ludovico il Moro di Milano, Lorenzo il Magnifico, Ferdinando di Napoli. Il focoso papa Sisto IV si era quindi visto costretto alla pace. Il suo maggior beneficiario fu proprio il re di Napoli, che così ottenne la restituzione di Gallipoli — già in mano veneziana —, da aggiungere a Otranto, che fu strappata al Turchi dal figlio, Alfonso duca di Calabria. 
Per i baroni era dunque l’ora d'agire, prima che fosse troppo tardi. Fu però proprio nell'ora dell'azione che i feudatari si  rivelarono incapaci, più che abili politici. Essi, infatti, non raggiunsero mai un vero accordo, né trovarono un’unica strategia. Parte puntò sul solito remoto e annoiato Giovanni d'Angiò, scontentando i feudatari comunque legati a interessi aragonesi; altri confidarono nel secondogenito del re, Federico; taluni rimasero dubitosi, badando ai propri vantaggi di bottega.  Neppure il prefetto di Roma e strumento del papa, Giovanni della Rovere, unito a doppio filo con i Sanseverino, riuscì a trovare il bandolo di una rivolta che rimaneva allo stato di caotica ribellione.
I congiurati continuarono ad avanzare in ordine sparso, ma, come osservò il primo e acuto storico della congiura, Camillo Porzio,
si è per lunga esperienza conosciuto che le guerre che commuovonsi con le forze di molti capi, arrecano agli assaliti più spavento che danno, conciossiaché la moltitudine, l’egualità e la diversità de' fini che gli induce a guerreggiare possono infra di loro agevolmente produrre differenze.
Di tutt'altro tenore fu la risposta del re, il cui braccio militare era Alfonso di Calabria, suo figlio, un principe che sarebbe piaciuto a Machiavelli per la spietata fermezza spesa nella difesa dello Stato, senza alcuna remora, giacché — dice il Porzio — avendo superato d'un tratto qualsiasi misura nella crudeltà, giudicava che nulla ormai gli fosse proibito. La spietatezza, del resto era l'unico strumento col quale i sovrani potessero sperare di stabilire la loro autorità dinanzi a sudditi ribelli in un’età che, a causa della diffusione delle armi da tiro, stava lentamente modificando i tradizionali rapporti di forza tra principi e sudditi. Alfonso riuscì a tenere in scacco il nemico più pericoloso, Roberto Sanseverino.
Lo scontro decisivo non ebbe luogo nel Reame di Napoli, bensì a Montarlo, nello Stato della Chiesa, tra Orvieto e Acquapendente (7 maggio 1486). Li, validamente appoggiati da Virginio Orsini e da truppe di Ludovico il Moro e di Lorenzo il Magnifico, gli Aragonesi ebbero la meglio su Roberto Sanseverino. All’interno del Regno la rivolta si frantumò in una serie di piccoli scontri, spesso d'esito incerto. La stessa durata del conflitto — come spesso accade — fini per giovare a chi aveva più risorse, cioè al re: che poteva durare più a lungo e aveva una sola linea di condotta, mentre tra i baroni i contrasti divennero insanabili.
Fuggito Federico, figlio di re Ferrante, da Salerno, dove era tenuto prigioniero dei baroni che invano avevano sperato di contrapporlo al padre, con gli altri figli, Francesco, Cesare e Ferrandino, re Ferdinando ebbe mano libera contro i congiurati. In suo soccorso giunsero anche truppe dalla Sicilia, da Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, interessato a sostenere la dinastia, consanguinea, degli Aragonesi, e da Mattia Corvino, re d'Ungheria, la cui moglie. Beatrice d'Aragona, figlia di re Ferrante, aveva fatto di Budapest un fiorentissimo centro di cultura umanistica.

Arrestato per complicità nella congiura, Giannantonio Petrucci, conte di Policastro, imparentato con i Sanseverino per aver sposato Sveva Sanseverino, figlia del conte di Lauria, fu condannato a morte e giustiziato il 13 novembre 1486 insieme col fratello, conte di Carinola: sei mesi prima del padre, affinché quest'ultimo assistesse alla rovina della sua famiglia e assaporasse sino in fondo l'implacabile vendetta del re, da lui tradito.
Giannantonio fu decapitato. Peggiore fu la sorte del fratello Francesco, conte di Carinola, giustiziato lo stesso giorno.
Data la sentenza, narra Camillo Porzio, non ordinò Ferdinando che in un dì morissero tutti o perché dividendo quella rigida giustizia venisse in più fiate a spaventare gli uomini o perché volle mostrare venirvi forzato. Sicché a tredici di novembre dell’ottantasei fe’ morire li conti di Carinola e di Policastro senza aver punto riguardo alla dignità che tenevano o all’essere stati suoi servidori antichi e famigliari. Perciocché il conte di Carinola gridandogli avanti il banditore la qualità del suo fallo fu per li più frequenti luoghi della città da una coppia di buoi strascinato e poi in sul mezzo del mercato scannato ed in più pezzi diviso lungo tempo avanti le principali porte di Napoli obbrobriosamente rese testimonianza della leggerezza ed infedeltà sua. Nè poté in guisa alcuna la procurata affinità degli Orsini non che campargli la vita ma né l’infamia della morte alleggerirgli i quali intenti col re per li freschi servigi a nuovi meriti l’uno e l’altro dovettero trascurare e rade volte avviene oggidì che l’obligo del parentado al proprio comodo prevaglia. Al conte di Policastro fatta che fu mozzar la testa fu conceduto a frati Domenicani che alla cappella del padre lo riponessino.

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