La conoscenza di un territorio e dei suoi valori identitari costituisce non solo il fondamento di un sentimento di appartenenza per le comunità che vi risiedono, ma anche il presupposto per un reale apprezzamento e per una consapevolezza del valore, collettivo e individuale al tempo stesso, del patrimonio culturale locale, oltre che una condizione essenziale per la sua tutela e per la sua rinascita economica e sociale.

Knowing a country and its identity values is both the basis for a sense of belonging for local communities and the prerequisite for an appreciation and a true understanding of the single and collective importance of the cultural and territorial heritage. It is, moreover, the necessary condition to promote its protection and economic and social revival.

venerdì 16 marzo 2012

Margherita Branciforti, duchessa di Mondragone

Margherita Branciforti, duchessa di Mondragone
illustrazione tratta dal saggio di Pinella Musmeci

Chi era questa donna che accomunò ai suoi non indifferenti titoli nobiliari anche quello di duchessa di Mondragone, privilegiandolo e portandolo con sé per tutta la vita e anche oltre?

Margherita Branciforti 

duchessa di Mondragone

Palermo 12.7.1781 – Niscemi 23.5.1830


così recita una semplice lapide posta nel muro di cinta del nuovo cimitero di Niscemi (Caltanissetta) con una foto in bianco e nero ricavata da un ritratto ad olio.
A questa donna ha dedicato un interessante saggio “Rivediamo la storia di Margherita Branciforti Duchessa di Mondragone” la storica Pinella Musmeci, inserito in una raccolta di altri saggi dal titolo “Diafore dimenticate”, pubblicato in Acireale 2001.

Pinella Musmeci contesta, e lo fa con dovizia di riferimenti storici e documentali, quanto precedentemente scritto, nel 1930, da Rosario Disca in un’altra opera sempre dal titolo “Margherita Branciforti Duchessa di Mondragone”. Anzi la Musmeci non riesce affatto a
comprendere la ragione che spinse il Disca ad operare una così intricata commistione tra documenti legali ed affermazioni intuitive, pur di scrivere un'opera piacevole alla lettura, una storia romanzata, descrivendo la Branciforti come una donna leggera, amante dei balli di corte e della bella vita. Il Disca, prete di Niscemi, proprio a causa di questa pubblicazione fu sospeso a divinis per alcuni mesi ed inviato a fare “esercizi spirituali”.
Ecco come il Disca ce la descrive nella parte finale del suo lavoro:
… fu di statura mezzana, ben fatta e negli ultimi anni della sua vita piuttosto pingue: bellissima nel volto; fronte spaziosa adombrata da capelli neri, occhi vivaci, naso affilato, mani e piedi piccolissimi. Vanitosa e leggera, sentì poco l’amore materno; ebbe poca cura del suo onore e cercò sempre di brillare nella società tra i grandi. Usa agli esempi della sua famiglia, ebbe cuore grande e munifico, ma fu sempre debole; si mostrò più prodiga che generosa. Convinta che le sue ricchezze erano inesauribili, non curò l’integrità dei suoi beni immobili; con incredibile leggerezza contrasse enormi debiti, permise che altri avessero sprecate le sue rendite e si lasciò spogliare dei suoi beni. Ebbe l’orgoglio dei principi di Butera, ma non l’onore e la virtù. Abbandonata dal marito, non seppe vivere in un ritiro dignitoso; indulse facilmente ai vizi, e finì vittima di un secondo marito che solo agognava alle sue ricchezze. La sua proprietà del valore di circa 85.000 onze, cioè unmilioneottantatremilasettecento-cinquanta lire, per quei tempi una ricchezza enorme, era costituita da feudi e da canoni. Alienò definitivamente due feudi, gravò di enormi ipoteche gli altri in modo da considerarsi anche perduti del tutto; dissipò in canoni per sciupare denaro; e alla sua morte lasciò debiti che il cav. Gout notò per onze 28877, 6 …..
Il saggio della Musmeci, puntuale e preciso, frutto di un’approfondita e lunga ricerca condotta in archivi storici ed ecclesiastici di Napoli, Palermo ed anche in Spagna, ci descrive, invece, una donna con tutti i suoi problemi, legata al suo tempo e alla sua famiglia.


Niscemi, palazzo Branciforti
foto tratta da internet (autore: Salvatore Brancati)


Margherita Branciforti, figlia di Ercole Michele Branciforti Pignatelli, principe di Pietraperzia e principe ereditario di Butera, e di donna Ferdinanda Riggio Moncada, dei principi di Aci e di Campofiorito, sposò in Napoli il 26 maggio 1790, in prime nozze, il duca Filippo Agapito Grillo Sanseverino, conte di Carinola, erede del titolo di Duca di Mondragone. Si spense a Niscemi il 23 maggio 1830 in un palazzo barocco, ancora esistente, da cui si domina tutta la piana di Gela; aveva lasciato Palermo circa sei anni prima senza mai più ritornarvi. Dal matrimonio erano nati tre figli: Domenico, Giuseppe e Maria Rosa. I primi due morirono, il primo in tenera età e l’altro in Sicilia, all’età di circa 20 anni, in circostanze mai accertate e forse collegate ai moti rivoluzionari di Palermo del 1820; la terzogenita Maria Rosa Grillo sposò il 31 marzo 1808 Giovanni Carlo Doria, principe di Angri, e morì in Napoli il 1 agosto 1863.


Mondragone. Palazzo ducale
Edificato dalla famiglia Grillo  intorno al 1700.


Per approfondimenti:
  • Rosario Disca, Margherita Branciforti duchessa di Mondragone, tipografia Scrodato, Gela 1932, X.
  • Pinella Musmeci, Rivediamo la storia di Margherita Branciforti duchessa di Mondragone, in Diafore dimenticate, tipografia Guerrera, Acireale 2001.




lunedì 12 marzo 2012

Rocca di Mondragone sotto la signoria dei Carafa e dei Grillo.

Mondragone, la Rocca
Nell’anno 1391, re Ladislao, successore di Carlo III, nell’ambito della sua politica di donazioni e concessioni volta a rafforzare attorno a se la nobiltà locale, assegnò a Jacopo Sannazaro il feudo di Rocca di Mondragone.  Il feudo rimase sotto la signorìa dei Sannazaro fino al 1430, per poi passare nelle mani di Giovan Antonio Marzano, Duca di Sessa, sotto il regno della regina Giovanna II, che perseguitò duramente coloro che erano stati fedeli al fratello Ladislao, spogliandoli di ogni privilegio.
A metà del XV secolo, durante il conflitto tra angioini e aragonesi, Rocca di Mondragone, che era una delle fortezze più importanti del Regno di Napoli, ancora sotto il potere del duca Marino Marzano, è assediata dalle truppe di Re Ferdinando I d’Aragona. 
In seguito, 1461, è concessa in feudo alla famiglia Carafa che la terrà ininterrottamente fino al 1690 con mero e misto imperio, praticamente l’esercizio di tutti i poteri: politico, amministrativo, fiscale, militare, giudiziario affidati al feudatario. Si tratta di una competenza, molto ambita e spesso comprata, per poter esercitare il potere giudicante non solo nelle cause civili, ma anche in quelle penali.
Questo il documento originale, cosi come riportato in Storia di Mondragone di Biagio Greco, 1927:
In anno 1479. Re Ferrante asserisce haver in anno 1461 venduto con patto de retrovendendo quandocumque al magnifico Antonio Carafa pro et suis utriuspe sexus haeredibus et successoribus in perpetuum, et in feudum la Terra della Rocca di Monteragone cum suis hominibus, vassallis, Juribus, Jurisdictionibus, mero mistoque Imperio et gladii potestate, Banco justiociae et cognitione primarum Causarum Civilium, Criminalium et mixtarum per ducati 2000 hoggi per altri ducati 5000 li cede detto Jus luendi e li vende libere detta Terra del modo predetto prout tenuerunt Praedecessores.
Antonio Carafa fu, quindi, I° feudatario di Mondragone; a lui successe il 29 maggio 1467 il figlio Luigi Carafa che sposò Isabella Della Marra, figlia del signore di Stigliano.
Con atto di privilegio dato a Barcellona nel 1519 il feudo di Rocca di Mondragone viene elevato a ducato e Don Antonio Carafa (+1528) diviene I° duca di Rocca di Mondragone.
A lui succedettero don Luigi Carafa (*1511 +1576) 2° duca di Rocca di Mondragone; don Antonio Carafa  (*1542 +14-8-1578), 3° duca di Rocca di Mondragone. Successivamente ancora don Luigi Carafa (*12-10-1567 + 22-1-1630), 4° Duca di Rocca di Mondragone. Fu quindi la volta di don Antonio Carafa che fu duca dal 1602 ed alla morte di questi nel 1624, per mancanza di eredi maschi divenne duchessa di Rocca di Mondragone donna Anna Carafa che andò in sposa, il 12 maggio del 1636, a don Filippo Ramiro de Guzman, duca di Medina de la Torres e viceré di Napoli nel periodo 1637-1644.
Alla morte del figlio di questi ultimi, Nicola Carafa Guzman (1638-1689), per mancanza di legittimi successori ex corpore, il feudo passò nella disponibilità della corona di Spagna e messo all’asta.
Ecco come le cronache del tempo riportarono la notizia:
(6 febbraio 1689) A detto dì, con la posta venuta da Spagna s’ebbe aviso ch’era morto il principe di Stigliano, figlio primogenito del fu duca di Medina de las Torre e di donn’Anna Carafa, vicerè di questo Regno di Napoli, di mal di pietra, senza lasciare figliuoli o altro legittimo successore, essendogli premorti due fratelli ch’avea. Per lo che sono ricaduti al fisco i suoi feudi, ascendenti al valsente a più di tre millioni, imperciochè, oltre lo stato paterno, che possedeva in Spagna, possedeva altresì in questo Regno, per l’eredità materna, più di trecento fra terre, città e castella; e già il fisco ha sequestrato ogni cosa.
Il feudo fu reclamato da donna Marianna Guzman Guevara, sorella del defunto per parte di padre, e, in un primo momento, i beni le furono anche assegnati dalla Regia Corte, ma la transazione non fu approvata da Carlo II di Spagna e V re di Napoli che in quel momento, forse, aveva un impellente bisogno di denaro per far fronte alla guerra di Milano che aveva prosciugato le casse imperiali.
Si aprì così la più importante causa di devoluzione feudale del XVII secolo.


Mondragone, Palazzo ducale

Nell’anno 1690 Rocca di Mondragone con i suoi casali di S. Angelo e S. Nicola, secondo  “l’apprezzo dei beni della famiglia Carafa” contava 203 fuochi per un totale di 1389 abitanti. Tra di essi erano 10 soldati a piedi e 2 a cavallo, 14 sacerdoti e 10 clerici, 2 notari ed 1 giudice a contratto, uno speziale di medicina, 1 medico, 3 barbieri, 6 sarti, 2 scarpari, un ferraro, 2 mastri d’ascia (falegnami), 3 botteghe di mercerie, 2 fabbricatori (muratori), 20 massari (quelli che gestivano le proprietà terriere di nobili e signorotti locali), una taverna ed una chianca, tutti gli altri erano bracciali, cioè lavoratori agricoli a giornata.
La popolazione si era più che dimezzata rispetto al censimento effettuato nel 1443, quando Rocca di Mondragone con i due casali di S. Angelo e S. Nicola contava 466 fuochi. In mezzo vi era stata la più grande epidemia di peste che abbia mai conosciuto il nostro paese (1629-1631): nel solo Regno di Napoli ci furono circa 900.000 vittime.
Nel maggio del 1691 il ducato della Rocca di Mondragone, unitamente alla baronìa di Carinola, viene aggiudicato a tale Francesco Nicodemo che, nel luglio dello stesso anno, lo girò con atto del notaro Paolo Colacino, reggente l’ufficio notarile presso la Regia Corte, a don Marcantonio Grillo, nobile genovese, marchese di Clarafuentes.
Dal 4 novembre 1692, con l’atto di assenso e la nomina a duca di Mondragone e conte di Carinola, da parte di Carlo II di Spagna, don Marcantonio Grillo (*Genova 26-9-1643 +12-9-1706) diviene feudatario della Rocca di Mondragone, con diritto di maggiorascato.
Alla sua morte, 1706, successero Don Agapito IV Domenico (*17-11-1672 +16-1-1738), Don Filippo Agapito V (*4-12-1699 +18-3-1783), Don Domenico (*20-4-1748 +13-12-1801).
Nell'anno 1752, la popolazione complessiva dei casali di S. Angelo e San Nicola e della Terra di Mondragone era di 1597 anime, suddivisa in 338 fuochi, 21 vedove e virginis in capillis, 32 forestieri abitanti, 31 ecclesiastici.
Ultimo feudatario della Rocca di Mondragone fu Don Filippo Agapito VI (* Mondragone 13-5-1770 +11-7-1820), Conte di Carinola e 4° Duca di Mondragone che sposò in Napoli il 26-5-1790 Donna Margherita Branciforte (*Palermo 1775 +Niscemi 1830), figlia del Duca Don Ercole Michele 10° Principe di Butera e di Donna Ferdinanda Reggio dei Principi di Aci, discendente da una delle famiglie più importanti del Regno delle due Sicilie. 

sabato 10 marzo 2012

I "fuochi" di Rocca Montis Dragonis nell'anno 1443

Alfonso I d'Aragona
(statua esistente sulla facciata 

del Palazzo Reale di Napoli)
Nell’anno 1443, Alfonso I d’Aragona ordinò la prima e più antica statistica relativa al Regno di Napoli; l’indagine si basò sul conteggio, per evidenti scopi fiscali, dei nuclei familiari denominati “fuochi”. 
La numerazione dei fuochi fu un vero e proprio censimento dei beni e delle persone con la descrizione nominativa del capoluoco (capofamiglia) e di ogni altro convivente, di cui si segnalavano l’età, lo stato civile, il mestiere. La rilevazione fu condotta casa per casa da un numeratore, delegato dal  Regio Governo e affiancato da deputati (eletti del popolo) dell'Università.
Sulla base del numero dei fuochi venne determinata la tassa da pagare “focatico”; il fuoco si identificava con l'insieme di persone, unite da vincoli di diversa natura, che traevano sostentamento da un patrimonio comune e dal reddito delle attività dei singoli componenti.

L’indagine relativa a Rocca di Montis Dragonis fu effettuata il 10 agosto 1443 "die X mensis Augusti".
Focolaria infrascripta fuerunt annotata in Roccha Montis Dragonis, intervenientibus lacobo de Rita, Sisto de Augustino, Antonio Canistro, Sindicis, ac Mastro de Novello et Mastro Mielo de Manso, Antonio Porcella, juratis et injuntis sub pena unciarum mille de veritate dicenda.
Il Liber Focorum Regni Neapoli conservato presso la Biblioteca Berio di Genova, un documento di carattere fiscale che, seppure non datato, risale senza dubbio all’epoca aragonese, riporta nelle Terre Ducis Suesse anche il toponimo Roccha montis dragonis.


Si riportano i nomi dei capofamiglia dei singoli fuochi: è possibile riscontrare come  a distanza di oltre cinque secoli si siano mantenuti intatti alcuni cognomi.

Fuochi della Rocca di Mondragone


Nardo de lanni, Colaferro dicto Piczolillo, Iacobo Ferro, lacobo Ventre, Maria Angel, Antonio Ferro, mastro Pedro Policano, lacobo Palumbo, Sabbatino De Vico, Pedro de Eventurello, mastro Andrea Siciliano, lacobo Stocco, Simone Surrentino, Cola d'Aviano, Tommaso de Griffo de Aversa, Antonello de Notaro Tommaso, Benedicto Sementino, Antonio Sementino, Patraczo de Filippo, mastro Malandrino dicto Bartolomeo de Rosa, Nardo de Vastello, Antonio Piczo, Ianne de Fanello, Anello lannarone, lanne Paribello, lacobo de Capua, Mastro Miele de Manzo, Antonio de Miele, Cubella Miraglia, mastro Domenico Damiano, Jacobo Russo, Pietro Bollaje, Romano Faravello, Pietro Fazalone, Masella di Giovanni, Cristoforo Ventre, Giovanni Ventre, Antonio Ventre, Margherita di lacobo, mastro lacobo Salzone, Andrea di Teano, Cola Bullo, Benedetto di Bona, Gaetano di Azarra, Nardo Martino, Maria Papa, Giovanni Papa, Pietro Papa, Antonio Martino, Tommaso Cola Martino, Antonio Brodella, Dominico Casandrino, lacobo Casandrino, Antonio Mormile, Simonello de Stabia, Cola Guarrillo, Antonio di Beatrice, Martino di Antonio di Beatrice, Andrea Beatrice, Benedetto di Borza, lacobo Casandrino, Pietro Barrese, Nardo Ventre, Masella Renda, Cola Bullo, Benedicto di Bona, Antonio Buglio, Beneditto de Bianca, Nardo Martino, lanne Papa, Pietro Papa, Antonio Martino, Giovanni de Cola, Petruccio di Ranaldo, Francesco Petrucci, Gubello Musella, Cola di Petruccio, Dicto Zaccaro, Bartolomeo Montanaro, Cola d'Alife, Giovanni Montanaro, Santuccio di Toraldo, Pietro di Goffredo, Giovanni di Mastello, Matteo Pepe, lacobo d'Assisi, Marco di Posillipo, Salvatore di Filippo,  Antonio lacobello, Antonio Romanello, lacobello di Santo, Antonio di Apolito, Romano Caiollo, Gubello Pellegrino, Vito Rocco, Antonio Canistro, Pietro De Angelis, mastro Antonio Caraniello, Angelo Canistro, Angelo Piro, Luigi Di Nola, Cubello Novello, Antonio Nuoro, Antonio Di Manzo, Maria di Notar Tommaso, lacobo Ceraldo, Antonio de Filippo, Francesco Signorello, Antonio Signorella, lacobo Piro, Giovanni di Carlandrea, Cola de Vivo, Tommaso De Vivo, lacobo Borzano, Rosa Novello, Antonio Portella, Angelo di Antonio, Andrea Pirolo, Palameda Spatario, Andrea Cerqua, Angelo Itri, Tommaso Zaffarano, Antonio Mola, Giovanni Fiore, Giovanni Rotundo, Pietro Marzano, Antonio di Loisio, lacomino di Finizia Tabernaio, Ambrosio di Napoli, Barnaba Tituno, Margarita di lacobo, Antonio Russo, Cubello Agnello, Bartolomeo di Morbraca, Santillo Tarolisi, Nardo Azuto, mastro Nicola di Pastina, Tommaso di Toro, Laurenzo di Alneto, Laurenzo di Salvatore, Bartolomeo di lanua, Marco di Turaldo, Pasquale Gizzariello, Cola Ferro, Riccardo lannarone, Martino Ferro, Cicco Feiro, Luca di Augustino, Antruela Coppola vidua, Andrea Ferraro, Andrea Catiello, Pietro Durante, Antonius filius eius, Gerardo de Piedimonte, Antonius filius de Gerardo, Cubolina et Benedictus, Silvestro Cardillo, Cristofaro Silvestri, lanne De Rosa, lanne Casillo, Angelus filius dicti, Costantia uxor Angelo Bozzillo, Rofinus Bozzillo, Cola Tutaro, Lucia vidua Thomasi, Martino de Ceraulo, Antonio di Colilla, Angelo Morrone, Caterina Morrone, Antonio Abbate, Sisto Montanaro, loanne Montanaro, Antonius filius dicti, Briante Camarino, Geronino Capuano, lanne fiIiae eius, lanne Coluzzo, Vito Antonio di Vito, Petruccio di Vito, Francisco di Principato, Santillus di Santillo, Antonio Casandrino, Cubello de Mola, Franciscus Mormile, Margarita de lacobo, Romano Pezzella, Petruczo de Masella, lacobo Stocco, Antonio Vonnerolla, Laurenzo de Beatrice, Tommaso de Mariotto, lacomino de Finara, Andrea de Mango, Faustino Rossillo.



Fuochi della Borgata S. Angelo

Boccuzzo Nardo, Iacobo Vecza, Boccuzzo Pietro, Gabriele de Sisto, lacobo Casale, Andrea Caruso, Alimanno de Minicuzzo, Francesco de Lanna, loanne de Minicuzzo, Antonio Palumbo, Angelo Donato, Marco Nigro, Cola de Romano, Andrea Cantello de Capua, Paolo Pico, Pietro de Aversa, Renzo de Facio, Angelo de Vito, Cicco Ventre, Giovanni de Chianura, Ioanne de Roccetta, lacobo Vecza, Minico Saffonetta, Gubello Palumbo, Giovanni de Freda, Antonio Funaro, lannuero Marranello, Antonio de Mastro lanni, Minichello de Aversa, Benedicto Russo, lacopo lannarone, Cola de Mastro Filippo, Vitale Zoraldo, Minio Brodella, Paolo Zoraldo, Bernardo de Minio, Pietro de Goffredo, Ferrante Parise, Cola de Goffredo, Isabella de Angelo, Giovanni Todino, Angelo Parise, lacobo de Alanna, Salvatore d'Ambrosio, Petruccio de Carnicella, Pietro de Agostino, Cicco de Petruzio, Nardo de Largentara, Giovanni Vecza, Antonio de Novello, lacobo Vecza, Giovanni de Marotta, Benedicto de Avulpo, Martino Lombardo, Sisto de Agostino, Antonio de Martino, Bartolomeo de Benedicto, lacobo de Raia, Cola de Benedicto, Pietro Ferro, Sisto de Augustino, Agnolo Ferro, Antonio de Augustino, Antonello de lordano, Luca Vecza, Cola de Amerruso, lacobo de Amelio, Mastro Antonio Biancolella, Ianniczo de Sisto, lovan de Franchino, Pietro Vecza, lacobello, Maciarola, Benedetto de Sisto, Matteo de Marotta, Nardo Crolla, Stefano lezo, Martino de lordano, Marco de Marotta, Pascale lannotta, Antonio Crolla, Simone Rauso, Cola Querillo, Tuczo Guarrillo, Nardo Guarrillo, Antonio de Nicola, Benedicto Longo, Iodice Francisco, Antonello filius dicti Franciscis, Giovani de Borza, lacopo de Rita, Antonio Rofino, Marco de Nicola, Andrea de Aversa, Pietro de Lanno, Antonio Grossi, Bartolomeo de Iscla, Andrea Rauzo, Notar Nicola de Alfano, Giovanni Macza, Andrea Barrese, Blasio Rustico, Pietro Guerro, lanne Guarrillo, Benedicto de Nicola, Antonio Longo, Iodice Francesco de Nazarolo, leanne de Vita, Valentino de Rocza, lanne de Lanna, Petruzzo Macza, Blasio Barrese, lacobo Boccuzzo, Ioanne de Mazczano, Notarius Antonius, Andrea Grosso, Paolo de Romano, Vincenzo de Fano, lanne de Calvi, Ianne de Frida, Tommaso Barrese, Minichello de Prochita, Cubello Zolardo, Cubello de Goffredo, lanne de Prisco, Iacopo Maczeo, Nicolao de Ruffo, Pietro Ruczo.


Fuochi della Borgata S. Nicola

Ianne di Fundi, Antonio Macera, Cola Macera, Orazio Macera, Cola Maio, Maso di Buozo, Agnolo Ferraro, Petruzzo Capracotta, lacobo de Buozzo, Antonio di Coronnio, Geronimo Verdua, Diomina Campagna, Fusco di Gironimo, Ioanne Antonio di Ruzardo, Antonio di Sabatino, loanne Sorella, lanne Percullo, Ianne de Pasilipo, lacobo Caynano, lanne Palumbo, Antonio Pizillo, Gasparre Ferraro, Blasio di Toro, Maso di Gironimo, Marco Gipzo, Agnesia Zelitta, Errichillo de Pugliano, Stabile Ciletta, Minico di Nardella, Cubello Barrese, Maso Maio, Antonio Maio, Angelillo di Francesco, Petruzzo filius dicti Angelilli, Salvatore Mataro, lanne di Elia, loanna Vacca, Franciscus di Paolillo, Thomase Rotolino, lanne Sassone, Gregorio Barrese, Petro de Vito, Bartolo de Barberi, lacobo De Palma, Agnolo de Palma, Antonio Casale, Marino Taballo , Antonio Matteo, Andreana Capuano, Petro Casillo, Cubello Casillo, Angelo Bujano, Palma Zelitta, Tommasillo Ordo, Ambrosio di Marotta, Cola Catalano, Antonius filius ejus et Cubella vidua, Nardus Almo, Petrus Mazayodana, Antonius de Petro, Blasio Romano, Cola Vaccaro, Bartolo Maior, Angelo Romano, Maria de Putheolo, Cola Martino, loanne de Maria filius Cole, Antonius, Benedictus Iacobus alias filius Cole, Rita Zolitta, Peter Pedeconi, Maso Mantone, Masella Sassa, lacobua filius MaseIle, Carlo Barrese, Domenico Varrese, lannuzio Barrese, Pietro Barrese, Antonio Barrese, Antonio Brodella, Domenico Casandrino, lacobo Casandrino, Laurenzio Casandrino, Antonio Marino, Matteo Morinese, Antonio Morinese, Antonio Ventre, Nardo Ventre, Riccardo Ventre, Giovanni Ventre, Riccardo de Serio, Limonello de Stabia.

domenica 4 marzo 2012

Atti delle visite pastorali e Relazioni ad limina: aspetti storiografici e sociologici

Relazione ad limina (1648) del vescovo di Carinola mons. Girolamo Vincenzo Cavaselice.
La relazione è ricca di notizie: la Cattedrale, dopo l'incendio del 1644, è stata restaurata; la diocesi conta appena diecimila anime; l'Abbazia di Sant'Anna di Mondragone ha un monaco residente. 
La Relazione reca l'iscrizione: Datum Monte Dragonis kalende di dicembre 1648, il vescovo di Carinola risiedeva infatti nei mesi freddi a Mondragone.

La visita pastorale è tra gli atti fondamentali della vita della Chiesa fin dalle sue origini. Il Concilio di Trento (1545-1563) ne ha dato una rigorosa regolamentazione e ne ha fatto uno strumento fondamentale della Riforma cattolica, uno dei momenti più alti e importanti nella vita di una diocesi: anima regiminis episcopalis, così afferma lo storico Gabriele De Rosa in Storia e visite pastorali nel Settecento italiano, in Vescovi popolo e magia nel Sud, Guida editori, 1983.
Con il Concilio di Trento venne stabilito, infatti, l’obbligo per i vescovi a compiere frequenti visite pastorali alle comunità diocesane.

I vescovi siano tenuti visitar in propria persona o per mezo di visitatori la diocesi ogni anno, tutta, potendo, e quando sia molto ampla, almeno in doi anni. I metropolitani non possino visitar la diocesi de’ suffraganei, se non per causa approbata nel concilio provinciale. Gl’arcidiaconi et altri inferiori debbiano visitar in persona e con notario assonto di consenso del vescovo, e li visitatori capitolari siano dal vescovo approvati. E li visitatori vadino con modesta cavalcata e servitù, ispedendo la visita quanto prima, né possino ricever cosa alcuna, eccetto il viver frugale e moderato, il qual però gli possi esser dato o in robba, o in danari, dovendosi osservare il costume, dove non è consueto di non ricever manco questi. Che li patroni non s’intromettino in quello che toca l’amministrazione  de’ sacramenti o la visita degl’ornamenti della chiesa, beni stabili ovvero entrate di fabriche, se per fondazione non gli converrà.                                                                
 Paolo Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, in Letteratura Italiana Einaudi

Giuseppe Crispino, vescovo di Amelia, autore di un importante testo sulla materia, Trattato della visita pastorale, Roma, 1695, più volte ristampato, scriveva che “il governo pastorale senza la buona visita è un governo languido, un governo morto, che a nulla vale”.
La visita pastorale si presenta, quindi, come una grande ispezione del vescovo sulle parrocchie e sulla vita religiosa nella sua diocesi. Secondo il Trattato del Crispino, essa si svolge, per lo più, in forma solenne e segue, con maggiore o minore fedeltà, lo schema di determinate istruzioni. La visita è preparata dall’annuncio e dall’invio di questionari ai parroci che devono riferire circa lo stato ecclesiastico e quello delle anime appartenenti alla parrocchia.
Tutte le scritture relative alla visita devono essere raccolte, secondo il Crispino, in un volume diviso in due parti: la visitatio civitatis e la visitatio diocesis; ognuna di queste è divisa in sei capitoli che comprendono la visita locale (edifici, tetti, mura e pavimenti), quella reale (suppellettili ed arredi vari, sacri e non) e quella personale del clero. Altro capitolo deve dedicarsi ai decreti emessi in corso di visita o emanandi. Altre due parti sono infine dedicate all’aspetto puramente economico con il rendimento dei conti e l’eventuale indicazione di “atti giudiciali contro i delinquenti e contro i debitori dei luoghi pii”.
I vescovi sono tenuti a custodire gelosamente le scritture relative alle visite ed a rendicontarne con Relazioni ad limina la Santa Sede. Ma non sempre gli atti relativi alle visite pastorali risultano ben conservati negli archivi delle curie vescovili, specialmente in quelle diocesi dove miseria, povertà e calamità naturali ne hanno resa precaria la vita, oppure in quelle che in un ambito relativamente ristretto di tempo hanno subito più cambiamenti territoriali: riordinamenti ecclesiastici, declassamenti, accorpamento o addirittura soppressione di sedi episcopali, come si è verificato con la diocesi di Carinola, soppressa ed accorpata alla diocesi di Sessa Aurunca, a seguito della Bolla “De utiliori …” emessa da Pio VII nel 1818.
Gli atti delle visite pastorali e, in special modo, le Relazioni ad limina assumono oggi un valore eccezionale in quanto contengono assai spesso notizie, che altrove non si troverebbero, specialmente per gli anni anteriori al 1800, e che riguardano non solo aspetti della storia ecclesiastica e religiosa. Questi documenti diventano fonti importanti in quanto ci danno notizia dei fenomeni popolari della pietà, delle tradizioni di culto, di devozione e di obbedienza seguite dal gregge numeroso delle parrocchie, dal popolo che affolla le chiese e frequenta le confraternite; tali documenti consentono originali rilevamenti sociologici che sono premessa indispensabile per una storia non ideologica, né intellettualistica della Chiesa e della società civile e religiosa di una determinata epoca. Abbiamo detto storia civile, perché negli Atti delle visite pastorali sono raccolti dati che una volta rientravano nella statistica della vita della parrocchia: popolazione, arti, assistenza. Il parroco doveva riferire al vescovo di tutto: se v’erano pubblici usurai e chi fossero, quanti fossero i medici e i chirurghi, le ostetriche, i librai, gli osti; doveva informare sulle rendite, le decime e i benefici. 
Il ricorso agli atti delle visite è indispensabile anche per la storia del costume, per conoscere consuetudini, superstizioni, feste.
Eilen Power ha scritto, Vita nel Medioevo, Torino, 1966, dell’enorme importanza che riveste la documentazione costituita dagli atti ecclesiastici medievali per lo studioso moderno di cose sociali, quindi non solo per lo storico della Chiesa; infatti, poiché nella sterminata documentazione archivistica medievale una parte cospicua è rappresentata, specialmente dopo il Concilio tridentino, proprio dagli atti delle visite pastorali, dai libri parrocchiali e dalle Relazioni ad limina, appare evidente come essi siano documenti preziosi per ricostruire l’ambiente storico e sociale, non soltanto di una parrocchia o di una diocesi.

sabato 3 marzo 2012

mons. Adelchi Fantini, parroco di San Nicola in Mondragone

Mons. Adelchi Fantini (1923 - 1992)
Adelchi Fantini, figlio di Carlo e di Marianna Fargnoli, nacque a Castelforte (Lt) il 10 gennaio 1923. Ricevette il Battesimo nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista il 10 marzo dello stesso anno.
Frequentò, con brillanti risultati, le scuole elementari del paese natìo; gli studi secondari nel Seminario Arcivescovile di Gaeta; quelli filosofici e teologici nel Seminario Regionale di Salerno, ove si distinse sempre per quella intelligenza viva e combattiva, che poi rivelerà in ogni tratto del suo ministero e della sua azione pastorale.
L’incontro di Fantini con la terra sessana avvenne durante l’estate del 1945, erano i mesi della grande battaglia di Montecassino tra tedeschi ed anglo-americani.
Tra gli sfollati che si dirigevano al di qua del Garigliano, c’era anche un giovane seminarista, Giovanni Adelchi Fantini che, insieme ai suoi parenti, venne accolto da una famiglia di Fasani. 
Lasciamo che siano Ie sue parole a descrivere l'avvenimento: 
“ ... feci l’animatore nella parrocchia di Fasani, priva del reggente, don Luca Lecce, da poco deceduto. In occasione della festa di San Martino, patrono della parrocchia, sollecitai la presenza del Vescovo, che entrò nel piccolo borgo a dorso di un asino, per poter guadare il Rivo Grande, dal momento che I’unico ponte d’accesso era interrotto, minato dalle truppe tedesche in ritirata. In risposta alle parole di ben venuto rivolte al presule da una bambina nella piazzetta del paese, nel complimentarsi con il giovane seminarista, Mons. De Cicco esclamò: «Desidererei tanto che questo giovane restasse nella mia diocesi!».
Questo desiderio, mediato dalla divina provvidenza, si e poi verificato”.
Il 6 giugno 1947, per imposizione delle mani del vescovo Mons. Gaetano De Cicco, nella Cattedrale di Sessa Aurunca, veniva ordinato sacerdote.
A distanza di appena un anno dall'ordinazione, veniva mandato, precisamente il 16 luglio 1948, festa della Madonna del Carmine, come parroco della popolosa comunità di San Nicola in Mondragone.
All’epoca la parrocchia era sita in locali angusti o addirittura fatiscenti in via magg. Boccucci, la parte più antica del rione di San Nicola.
Suo primo compito fu quello di costruire la nuova chiesa parrocchiale, i cui lavori iniziarono il 18 ottobre 1954, utilizzando la legge Aldisio del 1952. Per la sua progettazione ricorse al famoso architetto Gaetano Rapisardi.



La vecchia chiesa di San Nicola in Mondragone

1959, don Adelchi Fantini sul cantiere della erigenda chiesa di San Nicola in Mondragone


Il complesso parrocchiale San Nicola in Mondragone
E quando parlava di Rapisardi i suoi occhi si riempivano di gioia e si esaltava ancora di più quella sua parlata dialettale della terra di nascita.
II tempio, solenne e maestoso, s’impone oggi in tutta la sua splendida bellezza e celebra lo spirito di pietà e l’intelligenza, geniale e volitiva, di questo intrepido apostolo del Signore.



Chiesa di San Giovanni Bosco, Roma, quartiere Tuscolano. 
Costruita dall'arch. Gaetano Rapisardi,  tra il 1953 e il 1958, è coperta dalla cupola più grande di Roma,
dopo San Pietro e il Pantheon, per un diametro di 31 metri.
La struttura della cupola è simile a quella della chiesa di San Nicola in Mondragone.
Foto tratta da:www.flickr.com/photos/hyotsuk/1340883955/in/photostream. 
Ringrazio l'autore sig. Corrado dell'Olio per la gentile concessione alla pubblicazione.

Nel tempo la sua opera, illuminata e illuminante, varca i confini della sua parrocchia e abbraccia i vasti campi della pastorale diocesana, cui diede un forte impulso come Direttore dell'Ufficio Catechistico, come Delegato Vescovile per Ie Confraternite, insieme a numerosi altri incarichi. Fu Vicario Foraneo di Mondragone e Presidente del Capitolo Collegiale di San Giovanni Battista, zelando la purezza del culto in onore di S. Maria Incaldana, di cui era filialmente devoto.
Il 2 luglio 1982 veniva nominato Cappellano di S. S. Giovanni Paolo II.

Ha scritto di lui, don Franco Alfieri in un articolo pubblicato sulla Rivista Diocesana di Sessa Aurunca n. 1-2, anno IV, gennaio-giugno 1992:
Libero e schietto, estroso, imprevedibile, audace, profeta, integro ed intero, incontenibile e vulcanico nei progetti e nelle realizzazioni, visceralmente attaccato e votato alla causa della sua gente e della sua città. Ecco il ritratto di un uomo, di un prete, Mons. Adelchi Fantini, che fece della sua vita un dono, del suo cuore un tempio, della sua geniale forza intellettiva una leva per rompere ogni forma di accerchiamento che potesse compromettere il futuro dell'uomo. La sua azione poderosa fu sapientemente promozionale. Si espose sempre in prima persona, coinvolgendo tutto se stesso nella lotta di liberazione del suo popolo. Non ti lasciava mai indifferente la sua persona e le sue idee e rompevano in forme multicolori dalla sua esuberanza mentale. Mai si restò privi d’un dono.  
Qualche volta destava impressione quel suo apparire sciatto e trasandato. A ben pensarci, in quel suo porsi, senza etichette, nella spontaneità dei gesti, delle parole e di tutto se stesso c’era una venatura di acqua zampillante. Infatti il suo bagno tra la gente fu fervoroso e quotidiano, perché con immediatezza e senza mediazioni si immergeva nelle problematiche e nel tessuto vivo del popolo quasi di impulso. E così naturalmente riusciva simpatico e originale.
Corredato di una intelligenza acuta e concreta, sapeva intuire il corso delle cose e disporre già nel loro accadere le risposte più pertinenti e incisive. Egli era sincero: nemico acerrimo della doppiezza. Su questo terreno gettava impetuosamente tutto se stesso per aiutarci a vivere da uomini liberi.

Morì, parroco di San Nicola in Mondragone, il 7 febbraio 1992, senza aver mai lasciata la comunità parrocchiale che gli era stata affidata.

martedì 28 febbraio 2012

I Martiri Casto e Secondino: storia e culto

Sessa Aurunca. Catacombe dei Santi Casto e Secondino
Questo studio nasce dal desiderio di conoscere più a fondo le vicende dei due vescovi martirizzati a Sinuessa nel 292, Casto e Secondino, gloria e forza della diocesi di Sessa Aurunca.
Primitivamente essi furono scelti quali patroni del territorio aurunco, ma gIi eventi, purtroppo, li vollero lontani dal popolo sessano per ben 1015 anni, facendo diminuire l’interesse per le loro vicende e per quanta custodiva la loro memoria.
Cosi sono andate perdute molte prove delle loro esistenza e del loro martirio; poco resta della basilichetta di S. Casto e dell’intera area catacombale. Esse, pur essendo artisticamente e culturalmente notevoli, furono abbandonate all’erosione del tempo e alla vandalica azione dell’uomo.
Poche le fonti storiche riguardanti i due martiri. Di essi hanno scritto alcuni storici locali: Mons. Francesco Granata, il De Masi, Mons. Giovanni Maria Diamare, Lucio Sacco ed altri.
Opera più recente è l’opuscolo di Mons. Francesco Borrelli scritto in occasione del ritorno a Sessa Aurunca delle reliquie dei due Santi già asportate e conservate nella cattedrale di Gaeta per 1015 anni.

LA STORIA

1.1. Presenza Petrina in Sessa e Sinuessa
Sessa e Sinuessa, citta consorelle, come le definisce il Tommasino nella sua opera Aurunci Patres, erano situate sull’Appia, regina viarum, e collegate tra loro da una fitta rete di vie principali e secondarie che attraversavano vari villaggi, tra cui gli odierni Piedimonte di Sessa, Cellole e Carano.
Esse, citta molto fiorenti e conosciute nell’Impero, erano prospicienti l’Appia e la Domiziana, passaggi obbligati per chi da Pozzuoli si recava a Roma.
Infatti:
“partendo dal punto occidentale di PozzuoIi, (la strada) seguiva il lido del mare, lasciava i laghi Lucrino ed Averno a sinistra, per l’Arco Felice scendeva nella pianura di Cuma a sinistra, si rimetteva sulla spiaggia avendo a manco la selva gallinaro (pineta), e a dritta il monte Massico; passava il Volturno presso la foce su di un ponte e, pervenuta a Rocca di Mondragone, correva a congiungersi con la medesima Appia a Sessa, la Quale seconda traversa fu poi detta Domiziana, perché rifatta da Domitiano, come è presso Stazio ed altri scrittori di quel tempo, e come denunziava ai viandanti l’iscrizione posta sull’ Arco Felice”.

II Pratilli, che descrive in “Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi, Napoli, 1745”  la strada partendo da Roma, afferma:

“Cominciava dunque la via Domiziana da Sinuessa allato al mare, come si scorge anche di presente dagli sparsi, e sepolti avanzi, e terminava in Pozzuoli; dopo aver passato per tre ponti, prima il fiumicello Saone, indi il Volturno, e finalmente il Clanio, presso Literno”.
E più avanti:
“Si dipartiva la Via Domiziana dall’Appia poco lontano dalla punta  del Monte Massico, dove è al presente la Rocca di Mondragone: nel qual luogo l’Appia torcendo alquanto a sinistra, conduceva per diritto cammino in Casilino, ove è la nuova Capua; e la Domiziana piegando a destra verso il mare prende il suo sentiero verso il fiumicello Saone”.

Dal Pratilli sappiamo, inoltre, che l’Appia passava per Minturno e che attraversava il Campo Vescino che si estendeva dal mare fino alle falde del Monte Massico e a Sinuessa, comprendendo dunque, l’odierno demanio della citta di Sessa.
Quindi, niente di più facile che gli Apostoli, provenienti dall’Oriente, nel recarsi a Roma, siano passati per le nostre contrade, evangelizzando e fondando chiese.
Lo stesso Scherillo, Della venuta di S. Pietro apostolo nella città di Napoli nella Campania, Napoli, 1859, dice:
“Che S. Pietro in una delle volte che venne dall’Oriente in Roma, facesse la via Appia da Brindisi a Roma, e fuori di dubbio”.
Più avanti:
“Le Chiese che voglionsi fondate da S. Pietro sono appunto nella Campania e nella Puglia, dove Brindisi era uno dei consueti approdi di coloro che, come S. Pietro, venivano dall’Oriente; e sull’Appia, che era la via che da Brindisi  menava a Roma dove egli si dirigeva”.

Ancora afferma:
"Pietro stando a Romane usciva, come appreso da S. Epifanio, per l’esercizio del suo apostolato. Che alcune delle sue corse avesse a scopo l’Italia Cistiberina, si raccoglie dalla vita greca dell’Apostolo riportata dai Bollandisti, ove si dice che di Roma andò a stabilire primo vescovo di Terracina S. Epafrodito discepolo degli Apostoli, che dal beato apostolo Pietro fu ordinato vescovo di quella città.Da ciò possiamo far ragione agli scrittori che lo conducono a predicare poco più giù anche a Sinuessa ed a Minturna, città ora distrutte”.

OItre allo Scherillo, altri storici attestano la presenza del Principe degli Apostoli in queste nostre contrade, Giuseppe Carbone, afferma:
“ ... Dum Petrus ex Antiochia per Campaniam Romam petiit in quo itinere ut habetur ex monumentis plurium scriptorum, caeteris quoque Campaniae civitatibus ilIo tempore famosis, Pastores et Episcopos posuit”.

Anche monumenti storici concorrono a convalidare la veridicità di tale affermazione: il Duomo di Sessa con i rilievi delle gesta di S. Pietro nell’arco principale del Vestibolo come ricorda il Diamare Memorie critico storiche della Chiesa di Sessa Aurunca, Napoli, 1906, “fu innalzato appunto in onore del Principe degli Apostoli, Pietro”.
OItre questa testimonianza risalente al XII secolo, il Diamare ricorda ancora che nel 1860 fu rinvenuta una lapide presso il fiume Garigliano che, scritta in caratteri antichi romani, testimonia la presenza in quel luogo di un tempio dedicato a Giove, poi convertito in Chiesa cristiana dedicata a S. Pietro.
Anche da ricordare il ciclo pittorico presente nella chiesa di S. Marco a Cellole, senz’altro dedicato a S. Pietro.
Dei monumenti non esistenti, molti sicuramente erano dedicati al Principe degli Apostoli: l’antichissima chiesa di S. Maria a Valogno, l’antica Cattedrale di Sessa, una chiesa situata nella zona di Centore, nonché le attuali parrocchie di Falciano e Casanova dedicate, appunto a S.Pietro.
Tutte queste sono testimonianze che dimostrano come il culto di S. Pietro fosse radicato in più zone della mostra diocesi.
E poiché il culto di un santo nasce soprattutto dove questi ha operato, si può concludere, sulla scorta delle prove addotte e della bimillenaria tradizione che l’annuncio delle fede nelle città di Sessa e Sinuessa fu portato dal Principe degli Apostoli: Pietro.

1.2. Casto, primo vescovo di Sessa
 Il primo pastore della Chiesa sessana, di cui abbiamo notizia, fu S. Casto.
Sicuramente Casto, vissuto nel III secolo d.C., non fu il primo vescovo di questa Chiesa.
Il Grana, nel suo Ragguaglio storico della città di Sessa, afferma che dalle sue ricerche fatte nell’Archivio del Duomo, nella Cronica Cassinese, nell’Italia Sacra dell’Ughelli e nelle Storie della medesima citta di Sessa, risulta che primo vescovo di Sessa fu S. Simisio, consacrato dal Principe degli Apostoli e martirizzato nella persecuzione di Nerone.
Dopo di questo, i documenti succitati pongono S. Casto, cittadino sessano, vescovo e martire, patrono meno principaIe della città, la cui festa era celebrata il 22 maggio.
II Diamare asserisce, però, che contrariamente a quanto dice Mons. Granata, suo predecessore, e Lucio Sacco, S. Simisio non fu inviato da S. Pietro a reggere la Chiesa di Sessa, bensì quella di Soisson in Francia, per cui i suddetti autori avevano finito col confondere, insieme ad altri ed allo stesso Ughelli, il nome delle due diocesi.
E’ questa un’affermazione che apporta vantaggio alla tesi che vuole il primo Vescovo di Sessa ordinato da S. Pietro.
E’ impossibile avere notizia certa di predecessori di S. Casto, poiché Ie persecuzioni erano violente e i primi cristiani ben si guardavano dallo scrivere registri o documenti riportanti nomi o atti.
Primo vescovo di cui danno notizia accreditati scrittori fu Casto, cittadino sessano, martirizzato a Sinuessa nel 292 dal preside Curco, insieme a S. Secondino, vescovo di Sinuessa, Aristone, Crescenza, Eutichiano, Urbano, Vitale, Giusto, Felicissimo, Felice, Marta e Sinforosa.
Secondo il Diamare ciò è attestato nella Storia del De Masi e del Baronio.
Moltre Ie controversie riguardo la reale presenza di questo vescovo nella nostra Chiesa: Calvi e Trivento nel Molise, come Sessa, vantano come loro primo vescovo S. Casto.
Inoltre il corpo di S. Casto e venerato nelle Chiese di Capua, il 22 maggio, di Benevento il 6 maggio ed il 22 ottobre ad Acquaviva, Calvi, Sora e Troia di Apulia.
I Bollandisti sostengono che il culto di S. Casto si diffuse in più zone della Campania e che non ci sono prove dimostranti il martirio del Santo in questa regione, per cui tutte le reliquie, che in più posti si venerano, apparterrebbero ad un solo S. Casto, il cui corpo ci pervenne dall’Africa durante la persecuzione dei Vandali.
Per sostenere questa tesi, come ricorda la Mazzeo, i Bollandisti si rifacevano a varie testimonianze storiche riguardanti un Cassio, vescovo di Cedias, e un Secondino, vescovo di Macomedes, sacrificati insieme ad un altro martire e celebrati tutti da Cipriano ed Agostino e ricordati nel calendario cartaginese del VI secolo.
Ma a smentire questa tesi concorrono alcuni dati certi:
1 - la Biblioteca Sanctorum, che pure confonde S. Casto di Sessa con quello di Calvi, ci dimostra che i nostri Casto e Secondino erano autoctoni, distinguendoli da altre due coppie di Martiri: Casto ed Emilio, ricordati da Cipriano nel De Lapsis, anch’essi vittime della grande persecuzione di Decio in Africa, e Casto e Cassio venerati in Campania e nel Lazio; nelle leggende che narrano dell’arrivo dei vescovi africani nelle nostre zone non si fa mai menzione di S. Casto;
3 - è impossibile confondere S. Casto di Sessa con S. Casto di Calvi, in quanto del primo si dice che fosse cittadino sessano martirizzato nel 292 sotto Diocleziano con S. Secondino a Sinuessa, mentre del secondo si dice che fosse cittadino e vescovo di Calvi, martirizzato non sotto Diocleziano, ma sotto Nerone con S. Cassio, anch’egli di Sinuessa.
Quindi, attenendoci alle più antiche tradizioni, possiamo affermare che S. Casto fu veramente vescovo di Sessa.
A riprova di ciò abbiamo la zona catacombale su cui sorse la Chiesa di S. Casto, che custodiva oltre al corpo di S. Casto anche quello di S. Secondino.
Per quanto riguarda S. Casto, non si può pensare che un martire di importazione, abbia potuto lasciare tracce cosi profonde nella devozione popolare.

1.3. Secondino, Vescovo di Sinuessa
Molto più difficile è avere notizie riguardanti S. Secondino, per il fatto che la città di cui era vescovo, Sinuessa, andò del tutto distrutta, e con essa ogni tipo di documento.
Da fonti illustri, sappiamo che Sinuessa, la greca Sinope, fu una citta molto fiorente e assai conosciuta per la fertilità del suo suolo e per le sue acque termali.
Anch’essa, al pari di Sessa, ricevette la fede da Pietro che qui consacrò il primo vescovo, Cassio, martirizzato poi, sotto Nerone insieme a S. Casto di Calvi.
Tra i successori di Cassio è annoverato solo S. Secondino, martirizzato con S. Casto ed altri, nel 292, dal preside Curco (0 Curvo), nella stessa Sinuessa e poi, sepolto a Sessa, in un luogo chiamato Suti, insieme a S. Casto presso le catacombe nella omonima Chiesa.
A testimoniare la storicità dell’esistenza di S. Secondino valgono le fonti già addotte riguardo a S. Casto, di cui è sempre menzionato come compagno, e la tradizione vivente nel popolo sessano.
Anche gli Atti del processo sebbene molto posteriori e certamente rimaneggiati, parlano chiaramente di S. Casto e S. Secondino, imprigionati insieme, insieme operanti miracoli e infine insieme martirizzati.
Inoltre, il sarcofago ritrovato nella Chiesa di S. Casto a Sessa riportava la seguente chiara iscrizione:
Corpora S. S. Martyrum Casti civis et E. pi
Suessani et Secundini E. pi
Sinuessani heic requiscunt
in Domino
ed è tradizione che in questo sarcofago, formato da due urne, riposassero appunto i corpi di S. Casto e di S. Secondino.
Si aggiunga a ciò che il popolo sessano ha sempre unito nel culto questi due vescovi le cui reliquie si continuano tutt’oggi a venerare nella chiesa ad essi dedicata presso il nuovo Seminario di Sessa Aurunca.
A rafforzare la storicità di queste notizie, comuni tra l’altro a tutti gli storici che hanno trattato questo argomento, e una lapide collocata, come ricorda il Menna nel suo Saggio Storico della città di Carinola, nel vescovado edificato in Carinola da S. Bernardo, nel 1100 circa.
Egli cosi si esprime: ‘Si entra dunque nel suddetto Atrio salendo due gradi di marmo (... ) e su uno dei detti gradi di marmo pervenuti da Sinuessa esistono incise due iscrizioni, che riguardo il Martirio dei due vescovi di detta Sinuessa per nome Cassio e Secondino, e martirizzati, il primo nella persecuzione di Nerone, al riferir di M. Monaco, ed il secondo nella persecuzione di Diocleziano verso il III secolo di Cristo, come riferisce il Baronio in Martirol. Kal. lunii, e le iscrizioni da noi trascritte sono le seguenti
OSSA. MARTYRIS. CASSII EPISCOPI.
SINUESSANI HIC IN PACE
QUIESCUNT
CORPUS.  MARTYRIS. SECUNDINI
EPISCOPI. SINUESSANI. HEIC.
REQUIESCIT. IN. DOMINO
Sorge, dunque, spontaneo chiedersi perché S. Bernardo abbia voluto queste due lapidi per la costruzione del suo vescovado: certamente non le ha scelte per la pregiatezza del marmo, bensì perché recanti testimonianze tanto evidenti di due dei più illustri pastori che guidarono la primitiva Chiesa sorella di Sinuessa, confinante con quella di Carinola.

IL CULTO

2.1. II sarcofago dei Santi Casto e Secondino
Circa le testimonianze monumentali - cultuali che attestano l’esistenza e il martirio dei Santi Casto e Secondino, oltre che dal Diamare e dai vari storici locali, abbiamo notizie qualificate e dettagliate sia dal Prof. Cosimo Stornaiolo, Sarcofago nella Basilichetta dei S.S. Casto e Secondino in Sessa Aurunca, in Solenne Praeconium Januario Asprenati Galante ab amicis quiquagesimo recurrente anno ad initio eius sacerdotio, Tributum, Napoli, 1920, che dalla Prof.ssa Felicia Mazzeo, Il complesso cimiteriale dei Santi Casto e Secondino in Sessa Aurunca, in Fede e Cultura n. 1, Sessa Aurunca, 1990, che ci fornisce una dettagliata ed ampia descrizione dell’intero antico complesso cimiteriale di Sessa Aurunca, conosciuto col nome di ‘Catacombe di S. Casto’.
Dal codice riguardante il processo dei Martiri Casto e Secondino, pubblicato dal Borrelli nel suo opuscolo, si apprende che i due vescovi, dopo il martirio furono seppelliti in un luogo chiamato ‘Suti’ presso il quale la popolazione li venera a lungo, fino a quando, i loro corpi non furono trasportati a Gaeta nella seconda meta del X secolo, ai tempi di Pandolfo Capodiferro, principe di Capua.
Detta località, come dice la Mazzeo, e ancora oggi denominata nelle carte catastali, ‘campo di S. Casto’ o ‘Campo dei Morti’.
Non c’è dubbio che in questa zona collinare, a nord-est di Sessa, vi sia stato un cimitero paleocristiano, riconosciuto dallo Stornaiolo per le evidenti gallerie, loculi infranti e soprattutto per un piccolo oratorio, posto dietro le gallerie, le cui pareti mostravano affreschi con l’immagine del Redentore e dei Santi.
Tale sito, dovette perdere il suo aspetto cimiteriale quando, nel 1590, fu donato ai frati Carmelitani che vi edificarono il loro convento, con la Chiesa del Carmine.
Questi monaci che si trovarono ad occupare tutta la zona catacombale, ne utilizzarono i resti secondo le loro esigenze, e gli ambulacri ed i cubicoli furono utilizzati come cantine.
II Diamare ci ricorda ancora che i preti del clero di Sant’Eustacchio fecero distruggere le urne, scoperchiare il tetto e murare ogni apertura, per evitare quella vecchia tradizione popolare secondo la quale i bambini fatti sedere sul sarcofago guarivano dal mal di ventre, cosa da essi considerata sacrilega.
Questi luoghi restarono nel più completo abbandono, fino a quando, il vescovo Diamare, non invia delle fotografie ad Orvieto, nel 1897, e a Torino, nel 1901, invitando lo Stornaiolo che, nel suo articolo fa una dettagliata descrizione del sarcofago o meglio, come egli stesso dice, di una parte di esso, in quanto l’altra era ancora incassata nel muro.
Attualmente una parte di tale sarcofago, precisamente i tre quarti, come afferma la Mazzeo, e andata completamente perduta.
In seguito, la parte restante fu trasportata,   per volere del vescovo Costantini, prima nella Cattedrale e successivamente, nel 1973, nella Chiesa di S. Casto e S. Secondino, presso il nuovo seminario, nelle vicinanze delle catacombe.
Lo Stornaiolo afferma che, sebbene il sarcofago non presenti alcun segno della fede cristiana, si può considerare cristiano per il luogo del suo ritrovamento, e perché contenente, senza dubbio, le ossa di S. Casto vescovo e martire.
Esso è ad altorilievo e a sinistra presenta un genio alato seminudo con le braccia alzate, particolare, questo, che si può ancora parzialmente vedere nel rimanente frammento che fa da base all’altare del Santuario di S. Casto e S. Secondino.
Lo Stornaiolo ipotizza che a destra doveva esservi di sicuro, un altro genio simile ma in diverso atteggiamento a cui piedi erano accovacciati un cane e un vitello.
Egli stesso conclude che, più che di due geni lottatori doveva trattarsi di una scena campestre in cui i geni portavano, ad indicare le stagioni, corone e cesti di fiori o frutta e data lo stesso alla fine del III secolo d.C., epoca artistica di transizione, in quanto dibattuta fra le rappresentazioni pagane di sarcofaghi e quelle più tarde che si ispireranno ai temi biblici.
Lo Stornaiolo conclude che, lavorando nelle stesse officine, pagani e cristiani erano propensi spesso a scegliere rappresentazioni tombali tipiche, ma comunque suscitatrici di più sentimenti.
II Diamare, invece, sostiene che il sarcofago poteva anche essere una parte di qualunque mausoleo dell’antica Sessa, che, rimosso, fu successivamente adoperato per custodire i corpi dei due martiri.
Dal punto di vista artistico esso ha un modesto valore, ma è da mettere in evidenza che fu imitato dalla maggior parte dei marmorari del XIII secolo e scelto dallo scuoltore Peregrino nel bassorilievo dell’ambone del Duomo di Sessa Aurunca, anch’esso dei XIII secolo.
Al centro del sarcofago, poi, si nota un tipico medaglione: è opinabile il sarcofago fosse stato preparato per due sposi che volevano riposare uniti, nel sonno della morte. In effetti, in esso furono composti proprio i due corpi dei Santi Martiri, per evidenti esigenze cultuali.

Sessa Aurunca. Catacombe dei Santi Casto e Secondino
2.2. Le Catacombe
L’intero attuale complesso cimiteriale estato accuratamente studiato dalla Mazzeo, che, nell’articolo succitato, da un’esauriente descrizione dei resti delle Catacombe di S. Casto e S. Secondino.
II vescovo Diamare parla di una basilichetta di cui restava l’abside e dalla quale si accedeva ai piani sotterranei che, creduti delle gallerie abbandonate, si rilevarono, poi, delle Catacombe che, per la loro struttura, vennero avvicinate a quelle di S. Valentino a Roma, e definite ‘una bella riproduzione’ di quelle.
La Mazzeo, partendo dal testo citato del Diamare, non descrive questi luoghi, ma precisa che il complesso sopraterra si presenta come un ambiente di forma irregolare con pianta più o meno quadrata che, chiaramente dimostra l’esistenza di precedenti costruzioni che oggi si possono solo immaginare o ricostruire dai resti, poiché andate quasi interamente distrutte.
Le fonti dicono che il sarcofago si trovava in un ambiente sotto il pavimento, cui si accedeva, come nelle altre catacombe, per mezzo di cinque gradini di pietra; il che, osserva la Mazzeo, fa pensare che questo fosse un Martyrium.
Del nicchione, in cui furono certamente scavate delle tombe, ci resta solo il lato sinistro in cui è presente una struttura che permetteva la sepoltura a piani sovrapposti, in quanto ad un primo piano costituito da tegoloni ne seguiva un altro contenente delle ossa, per far si che i fedeli fossero sepolti accanto alla tomba dei Martiri.
La parte di fondo presenta all’estrema destra un nicchione ornamentale, successivamente murato; sul lato destro della ghiera una nicchietta, ed al centro una nicchietta rettangolare a cielo aperto.
Attualmente si accede aile catacombe dall’estremo angolo sinistro, per mezzo di una rottura di pareti.
Nel nicchione, dalla pianta ottagonale, si aprono sei picco Ie absidi sovrastate, nella parte superiore, da una piu grande che, a sua volta, sovra- sta la parte sotterra che esegnata da lunghi cunicoIi in cui si rinvengono ancora loculi successivamente tagliati per ampIiare i cunicoli stessi.
Alia destra del cunicolo una porta sicuramente metteva in comunicazione questo ambiente e quello della ‘memoria’.
II cunicolo, dopo un arco, apre in una cripta coperta a botte dalla quale continua il cunicolo principale e se ne apre uno secondario, in cui si possono osservare tombe a semicappuccina.
La ricognizione completa della zona fa scoprire anche nuovi cunicoli e nuovi ambienti che dimostrano come tutta la collina di S. Casto fosse stata trasformata in catacombe.
A conforto di tale tesi, si ricorda che nel 1972 furono rinvenute altre tombe a semicappuccina fittile che testimoniano ‘in loco’ la presenza di un cimitero sopraterra di cui parla anche lo Stornaiolo.
L’insieme monumentale, anche se abbandonato e sconosciuto ai più, ha importanza perché è una delle pochissime testimonianze della chiesa primitiva locale e dell’antica fede delle genti aurunche.
Inoltre, l’intero complesso, che si può datare al massimo tra il IV e il V secolo dell’ era cristiana, e rimasto intatto nella sua struttura, in quanto la distruzione di Sinuessa in epoca tardo-romana e la decadenza della stessa Sessa impedirono che esso fosse inglobato in una basilica o altro monumento cristiano, come è avvenuto per altri edifici catacombali.

2.3. Eventi storici delle reliquie
In riferimento alle reliquie dei martiri Casto e Secondino, il Diamare riporta un’antica leggenda assai nota presso il popolo sessano. Essa racconta che, essendo la basilichetta di S. Casto visibile fino a Gaeta, gli abitanti di questa citta spesso vedevano uscirne delle fiamme.
Spinti da questa visione, alcuni di essi di nascosto vennero a Sessa e rubarono i corpi di S. Casto e S. Secondino.
II De Masi, che descrive il sarcofago contenente i corpi dei due Santi e ne riporta l’iscrizione, ne attesta la presenza nella basilichetta .
Ma a parte la leggenda, una sorta di ‘rapina’ da parte dei cittadini di Gaeta è anche   attestata storicamente.
Lo stesso De Masi, come riporta il Diamare, dice che i corpi dei due Martiri, dopo che riposarono a lungo nella basilichetta di S. Casto ‘neIl’anno 966, come dice il Capaccio, secondo il computo del Baronio, nel 967, oppure, come vuole Michele Monaco, nell’anno 969, ritrovandosi in Capua il Papa Giovanni XIII e Pandolfo, Principe dei Longobardi, furono trasportati in Gaeta ad istanza di Landone, duca di quella citta, co’ corpi de’ Santi Cassio e Casto, l’uno Vescovo di Sinuessa, l’altro di Calvi, i quali al riferire di Cerbone, costituiti vescovi da S. Pietro, furono martirizzati nella prima persecuzione mossa dall’imperatore Nerone, e riposavano in Calvi.
E cosi riposti vennero questi sacri pegni nel succorpo della Cattedrale di Gaeta insieme a quello di Sant’Erasmo, Vescovo e Martire, dal riferito Sommo Pontefice che vi intervenne’.
II Diamare, perciò, conclude che se già nel 969 il principe dei Longobardi volle le spoglie dei due Santi nella Cattedrale di Gaeta, ciò vuol dire che già allora si stimavano moltissimo le sacre spoglie custodite dai Sessani.
Inoltre, anche il Prof. Luigi lzzo nel suo articolo S. Casto e S. Secondino a Sessa, contenuto nell’opuscolo del Borrelli, ricorda che nel libro Degli antichi Duchi e Consoli Ipati della città di Gaeta, Giovanni Battista Federici, monaco cassinese del 1791, scrive che nelle pergamene conservate a Montecassino si legge che nel 966 era duca di Gaeta Landone o Lando, che aderì alle richieste di Pandolfo I Capodiferro, Principe di Calvi, e concesse un braccio di S. Casto al vescovo di questa citta, Andrea, eletto, nel 944, proprio da Pandolfo.
In un primo tempo i corpi dei nostri Martiri furono riposti nell’altare a destra dell’altare maggiore della Cattedrale, e quando, verso la fine del XVI secolo, il vescovo di Gaeta Idelfonso Lassodegno, decise di costruire un succorpo per deporvi le reliquie dei Santi, gli altari laterali furono demoliti, e Ie sacre reliquie composte in una terza cassa, a parte, furono provvisoriamente poste in un altro luogo della Cattedrale 53.
II 9 aprile 1620, completati i lavori del succorpo, vi furono traslate le sacre reliquie e deposte sotto l’altare insieme a quelle di S. Europia e di altri Santi, dove tuttora si venerano.
In riferimento a tale avvenimento il Prof. Izzo scrive che ‘nell’archivio Capitolare di Gaeta, esiste una pergamena del 1720 di mm. 720x445, che ricorda tale solenne avvenimento essendovi il vescovo D’Ona, assistito da tutto il capitolo, seguito dai Giudici e dal popolo numeroso’.
I loro crani vennero, invece, venerati in diversi reliquiari, fino a quando, nel 1982, furono di nuovo riportati a Sessa Aurunca e restituiti alla venerazione del loro popolo.

prof.ssa Antonia Caputo


nata a Carinola (CE),
diplomata al Liceo Classico e successivamente all'Istituto Magistrale,
laurea in Lettere presso l'Università degli Studi di Cassino;
ha conseguito il Diploma in Scienze Religiose presso l'ISR "Fortunato de Santa" di Sessa Aurunca.
Docente di latino e materie letterarie nella scuola secondaria superiore, 
cura inoltre i contenuti web come copy writer presso amdweb (sito ufficiale amdweb.it)

Le foto a corredo dell'articolo sono di Mauro Riccio e sono state tratte da internet.