La conoscenza di un territorio e dei suoi valori identitari costituisce non solo il fondamento di un sentimento di appartenenza per le comunità che vi risiedono, ma anche il presupposto per un reale apprezzamento e per una consapevolezza del valore, collettivo e individuale al tempo stesso, del patrimonio culturale locale, oltre che una condizione essenziale per la sua tutela e per la sua rinascita economica e sociale.

Knowing a country and its identity values is both the basis for a sense of belonging for local communities and the prerequisite for an appreciation and a true understanding of the single and collective importance of the cultural and territorial heritage. It is, moreover, the necessary condition to promote its protection and economic and social revival.

sabato 24 gennaio 2015

L'anfiteatro campano dell'antica Capua

L'anfiteatro campano dell'antica Capua

Il grandioso anfiteatro in grado di ospitare fino a 60.000 spettatori, fu costruito alla fine  del I secolo d.C., dopo la demolizione dell’arena di Spartaco.
Il modello di riferimento fu il Colosseo di Roma, rispetto al quale l’edificio di Capua è di poco inferiore. Alto in origine 44 metri, la struttura fu realizzata interamente con calcare del monte Tifata. La facciata presentava quattro piani, i primi tre con arcate sovrapposte, e il blocco centrale di ciascun arco era decorato con la testa di una divinità, forse utilizzate come riferimento per raggiungere i vari settori della cavea. 


Anfiteatro campano dell'antica Capua: uno degli ingressi alla cavea

Anfiteatro campano dell'antica Capua: la facciata esterna che si elevava su quattro ordini di arcate in calcare del Tifata. Teste di divinità erano al centro di ciascun arco e nei fornici erano installate statue. Le decorazioni risalgono al II secolo d.C.

Gli spettatori, secondo il proprio rango sociale, si accomodavano in ciascuno dei tre settori ei quali erano suddivise le gradinate da un alto muro e poggiava su un sistema di sotterranei divisi nel senso della lunghezza in nove corridoi paralleli. 

I sotterranei (carceres) avevano un sistema di smaltimento delle acque, 
stalli per le bestie e macchine elevatrici.

I sotterranei, area di servizio dell’anfiteatro, ospitavano i complessi macchinari scenici, gli addetti e i protagonisti degli spettacoli. Due cisterne poste sui lati est e ovest fornivano l’acqua indispensabile per le esigenze di funzionamento e per i famosi giochi d’acqua, tra i quali le aspersiones del pubblico con i profumi.
L’edificio fu utilizzato ancora nel V-VI secolo d.C. quando fu allestita una chiesa nei sotterranei. Certamente nel IX secolo fu utilizzato come fortezza. Proprio per evitare la possibile occupazione della struttura da parte di forze militari nemiche di Capua (nel frattempo trasferita sul sito attuale) fu ridotto in rovina. Il sito fu protetto dal 1522 come luogo della memoria collettiva con un editto della città di Capua.


Planimetria generale dell'area


Le foto sono di Salvatore Bertolino
Il testo è tratto da un pannello didascalico presente in loco.

venerdì 23 gennaio 2015

Il monastero di santa Reparata a Teano



Il monastero di S. Reparata si trova lungo la strada che da Teano porta a Roccamonfina, e la sua fondazione, sebbene al riguardo non vi siano notizie certe, non è anteriore all’ 804 in quanto non ricordato nel privilegio di Carlo Magno, che elenca tutti i possedimenti benedettini in Teano.
La data più probabile è la seconda metà del sec. IX. Secondo Domenico Giordano la traslazione di S. Reparata in Cattedrale avvenne nell’anno 880; la sua opinione è fondata su un’iscrizione trovata nella Cattedrale durante la ricostruzione.
E’ certamente uno dei conventi più importanti di Teano, anche perché all’interno dell’edificio vi sono i resti della Santa che è la Coopatrona di Teano, nonché la patrona di Firenze.



Il monastero fu soppresso canonicamente dopo il Concilio di Trento, per la sopravvenuta proibizione di tenere monasteri femminili fuori dell’abitato,
poiché quei monasteri di monache, che si trovano fuori delle mura della città o del villaggio, sono esposti alla preda e ad altri pericoli da parte dei malfattori e spesso senza alcuna difesa, se i vescovi e gli altri superiori lo crederanno, facciano in modo che le monache siano trasferite da essi a quelli nuovi - o a quelli vecchi - che si trovano entro le città o villaggi più abitati; richiedendo anche, se fosse necessario, l’aiuto del braccio secolare. Quelli che lo impedissero o che non obbedissero, siano costretti con le censure ecclesiastiche.

Le  monache furono accolte nel monastero di S. Caterina che ancora oggi esiste al centro di Teano.
Nel monastero subentrarono, nello stesso anno 1559, i Frati Cappuccini.
Nel 1810, a seguito della soppressione degli Ordini Religiosi, decretata dal Re Giuseppe Bonaparte, i Cappuccini abbandonarono la chiesa e il convento. Nel 1879 il Cardinale Bartolomeo d'Avanzo, vescovo di Teano, riscattò dal Demanio la chiesa e il convento, affidandoli ai Missionari Redentoristi che ancora oggi gestiscono la struttura.



sabato 17 gennaio 2015

Immortale Falerno! Nettare degli dei...


Manuela Piancastelli, valente giornalista de IL MATTINO, in un suo lavoro I Grandi Vini della Terra di Lavoro, parlando del Falerno dice:

Il vino più famoso dell’antichità in assoluto, fu il Falerno. E fu anche la prima doc del mondo perché, per la prima volta nella storia, il vino fu identificato nel territorio, ossia in quell’Agro Falerno sui cui confini si sono accapigliati per secoli gli studiosi, ma che doveva avere il cuore  nella zona tra Mondragone, Falciano e Carinola, ai piedi del monte Massico e che si estendeva lungo l’asse dell’Appia.
La storia ci racconta che i Greci, quando arrivarono in Italia fondando Cuma nel 730 a.C:, portarono come corredo anche alcune viti, le cosiddette aminee delle quali, nonostante la mole di studi, si sa in effetti ben poco. Plinio nella Naturalis Historia e Columella nel De re rustica, qualche secolo dopo, ne fecero una sorta di classificazione (maiuscola, minuscola, e gemella, cui fu aggiunta la germana e la lanata) che però ci aiuta poco nell'identificazione di quei vitigni con quelli attuali.


Mi sono imbattuto, facendo nelle mie ricerche, in un articolo a firma di Giovanni De Stasio, originario di Falciano del Massico, apprezzato giornalista de Il Mattino, Il Giornale di Caserta, Il Corriere del Mezzogiorno, autore di una pubblicazione proprio sul Falerno, di cui è un ottimo produttore, pubblicato su Caserta Economia & Lavoro, rivista on-line edita dalla Camera di Commercio di Caserta.

Il vino Falerno da nettare degli dei alla conquista di Parigi e del vitigno Primitivo

"Il vino è il canto della terra verso il cielo".
Così scriveva Luigi Veronelli considerato il più grande cantore moderno del vino che ha contribuito a fare la storia, la civiltà dei popoli. Il vino è il Falerno, considerato il "number one" dell'enologia antica e moderna. Il più antico, il più blasonato, il più celebre, il più caro vino della storia! 
La più inebriante bevanda dell'umanità. Una cosa è certa: il Falerno è la Storia. Come la Storia dell'antichità e della modernità. L'eternità! Certo nessun altro elemento resiste all'inesorabile usura del tempo, a dargli la paternità di infinità è il grande Marziale quando lo definisce "Immortale Falernum". Evidentemente presagiva che il Falerno conservasse la sua fama imperitura. Veramente un dono di Dio se si pensa che questa magica bevanda aveva svolto un ruolo, importante nella storia, nella cultura, nella tradizione, nell'economia dei popoli. Per non parlare dei suoi effetti miracolosi nel campo dell'amore, tanto da essere definito, dall'ex presidente dell'ordine regionale dei giornalisti Ermanno Corsi il "moderno Viagra". Ma non è che nell'antichità romana non avessero, sperimentato gli effetti afrodisiaci del Falerno. Lucano scriveva che il Falerno dava spinte vigorose e penetranti agli incontri di Cleopatra.
Ma è tutto il Parnaso latino ad elevare il suo inno di gloria al Falerno. Tutta la poesia e tutta la letteratura romana antica pullulavano di panegirici al Falerno, quasi considerandolo come un dio della salute e dell'amore. “Nettare degli dei ..... Massico umore di Bacco", il "vino degli imperatori" così veniva declamato nell'antichità latina. Basti ricordare che a quei tempi una cena, un pranzo per essere dichiarati "importanti e di lusso" dovevano essere innaffiati dal vino Falerno, che si fregiò della prima DOC al mondo.
Il grande Cesare festeggiò i suoi successi bellico-politici con il Falerno. E quando non si aveva la fortuna di possederlo, ci si scusava - come successe ad Orazio - che avendo invitato a cena si giustificava di non potergli offrire il mitico Falerno. Ma innaffiò le cene pantagrueliche di Trimalcione e Damisippo, dove avevano partecipato i potenti di allora.
Virgilio, nel secondo libro delle Georgiche scriveva che il Falerno non aveva rivali. Orazio definiva il Falerno un vino "severus", "fortis" e "ardens"; Marco Terenzio Varrone annetteva al Falerno una fortissima spinta propulsiva tale da chiamarlo "incendium virium"; Marziale lo inneggiava "Immortale Falernum"; non meno elogiativa l'espressione di Plinio che lo chiamava "auterumm"; Dionigi di Alicarnassa "soave e pulchri coloris"; Strabone "vinum optimum".
E quale l'apprezzamento del re del foro romano Cicerone? "firmissimum, generosum ac praecipuae bonitatis". E del poeta dell'amore Catullo? "Minister vetuli, puer, Falerni niger mihi calices amariores". 
Insomma tutta la produzione letteraria antica lo aveva consacrato il migliore vino del mondo, e logicamente il suo costo era altissimo. Una bottiglia di Falerno, sotto Diocleziano costava - così come riportano i classici latini - 60 dinari, ossia - osservava lo storico-archeologo Giuseppe Guadagno - "due Padreterni". Un'altra testimonianza sul prezzo del Falerno è di Falerno che scrive: “Il falerno costa molto”; Diodoro Siculo scriveva che un'anfora di quel vino si comprava con trentatre dinari. Con cento dinari si compravano due buoi o quattordici quintali di grano. Ad Ercolano - dice sempre Diodoro Siculo - con un bicchiere di Falerno si compravano le buone prestazioni di due etere. Insomma, il Falerno era così richiesto che la sua produzione non riusciva a soddisfare le tantissime richieste, tanto che esso veniva frequentemente falsificato. Regge gli anni di invecchiamento? Ecco una testimonianza dai classici: dal Satiricon di Petronio: "Intanto, vengono portate anfore di vetro, accuratamente sigillate col gesso; sull'etichetta di tela, che era attaccata al loro collo, si leggeva: Falerno del consolato di Opimio anni cento. Mentre guardavamo questa scritta, Trimalcione battè dolorosamente le mani dicendo: Ahimè! Il vino ha dunque più lunga vita di noi fragili creature umane? Ma noi ci vendicheremo succhiandolo tutto. Nel vino è la vita. Questo poi è quello di Opimio, garantito".
E la fama del Falerno è sfociata nella leggenda. La mitologia racconta che il dio Bacco, proprio sulle falde del monte Massico, comparve sotto mentite spoglie ad un vecchio agricoltore di nome Falerno, il quale, nonostante la sua umile condizione, lo accolse offrendogli tutto quanto aveva, latte, miele e frutta. Bacco, commosso, lo premiò trasformando quel latte in vino che Falerno bevve, addormentandosi subito dopo. Fu allora che Bacco trasformò tutto il declivio di Monte Massico in un florido vigneto.


Mondragone, località Tre colonne

Ma quale la culla di questo vino leggendario?
Macrobio scrive testualmente: "Il territorio Falerno, il Falernus Ager, si estende tra il Monte Massico ed il Volturno e precisamente nel territorio dell'antica Calenum". Ambrogio Calepino; l'umanista bergamasco del tardo 400, precisa che il vino Falerno è quello delle pendici del Massico, tra Falciano, Casanova, Ventaroli e Cascano".
Il disciplinare per la Doc al Falerno prescrive, però, che si produca nei 5 Comuni di Falciano del Massico, Carinola, Mondragone, Cellole e Sessa Aurunca. Ma ora una domanda sorge spontanea: il Falerno contemporaneo è ritornato - dopo la falcidia della fillossera del 900 - ad essere il "number one" dell'enologia mondiale?
Con questo secolo è ritornato ad essere l'immortale Falernum, l'incendium virium", il "nettare degli dei" dell'antichità? La risposta - anche se i tempi sono cambiati - è positiva. Specialmente se il Falerno lo si ricava dal vitigno Primitivo. Sia l'ex star Veronelli (l'ipse dixit dell'enologia moderna) che Luigi Moio, una vera e propria autorità mondiale dell'enologia e definito il "poeta del vino", hanno con forza definito il Falerno il vitigno Primitivo. 
Vitigno uva Primitivo
Anche se il disciplinare della DOC prescrive i vitigni Aglianico, Piedirosso e Barbera. Forse rispetto a prima oggi il Falerno non gode del marketing di allora. Prima osannato ed incensato da letteratura e da imperatori, oggi il mercato è selvaggio e non vince sempre il migliore prodotto. L'intossicazione della propaganda e l'egemonia dei "maghi del vino" la fanno da padroni. Ed è difficile che l'eccellenza vinca sulla mediocrità. Oggi tanti titoli si comprano. Però, malgrado tutto, il Falerno non vince, ma neanche perde la sfida dell'attuale "mercato globale" governato dalla "competition is competition".
I convegni, i seminari, le degustazioni sul Falerno sono all'ordine del giorno. Ed anche gli elogi per le ebbrezze che si sono provate nella degustazione dell'attuale Falerno, sono copiosi ed entusiastici.
La laurea di ottimo vino al Falerno è venuta dal grandissimo attore Laurence Olivier. Durante la lavorazione del film su Lady Hamilton a Palazzo Reale a Caserta, l'attore fu ospite del preside Troianiello che coltivava il Falerno sui colli di Casanova di Carinola, sempre alle falde del mitico Monte Massico. Quando ritornò a Londra, Laurence inviò al preside un biglietto che recitava testualmente: '"La ringrazio per il suo immenso gradito regalo di quell'eccellentissimo Falerno. Lo berrò col roast beef come lei suggerisce".
Un altro significativo riconoscimento arrivò tempo fa da una iniziativa della Camera del Commercio di Caserta dove veniva fuori che "il Falerno conquista Parigi". Un conclave tra i maggiori critici enogastronomici italiani e stranieri, promosse a piene mani il Falerno. Ma il protagonista della "tre giorni", svoltasi sul litorale domizio, fu Alain Passard. Il cuoco francese, insignito di tre stelle Michelin e titolare dell'Arpage di Parigi, è ritenuto tra i dieci migliori cuochi mondiali. Passard mise insieme cucina francese e l'antico Falerno. E Francois Maussr presidente del Grand europee du vin francese (una delle più importanti associazioni di assaggiatori di vino disse che il Falerno ha tutti i numeri per competere con i grandi rossi bordolesi di Francia".
E tanti e tanti altri simposi elogiativi per questa magica bevanda. Bevanda che manda in estasi il grande giornalista Roberto Gervaso che, in un epinicio al Falerno, scriveva sulla prima pagina de "Il Mattino" che il Falerno favoriva il talamo.

venerdì 16 gennaio 2015

LA ROCCA MONTIS DRAGONIS nella Terra di Mezzo

LA ROCCA MONTIS DRAGONIS 
nella Terra di Mezzo
La ricerca archeologica nel bacino 
tra Volturno e Garigliano dalla Protostoria al Medioevo

a cura di Luigi Crimaco e Francesca Sogliani
pp. 536
Museo Civico Archeologico "Biagio Greco" 
Mondragone, 2012
ISBN: 88-89938-06-04


Le terre di cui si occupa questo volume appartennero alla colonia civium Romanorum di Sinuessa, fondata insieme alla gemella Minturnae nel 296 a.C.
Questa porzione di terra, compresa tra i fiumi Garigliano e Volturno presentava già in antico una composizione sociale e territoriale complessa che comprendeva strutture insediative molto differenziate sul territorio. Si trattava soprattutto di strutture agrarie che riuscirono in breve tempo a produrre e rendere famosi prodotti come il formaggio "Caedicius" e il "vinum Falernum".

Per la prima volta sono state scavate in estensione le strutture del vicus Papius, centro amministrativo del pagus Sarclanus, dotato di un sistema di abitazioni e botteghe per la vendita dei prodotti delle ricche proprietà dell'area. Ma la sovrastante altura del Monte Petrino ha rivelato, al di sotto del castello e dell'abitato medioevale, capanne straordinariamente ben riconoscibili databili tra l'età del Ferro e l'Orientalizzante, che gettano nuova luce sull'ancora poco conosciuto popolo degli Ausoni-Aurunci.

Nel volume i seguenti contributi:
  • Il "villaggio dei ciclamini". Ambiente, economia e cultura: nuovi scavi e precisazioni sull'insediamento protostorico di monte Petrino di Luigi Crimaco;
  • Il "villaggio dei ciclamini". Studio di un'archeofauna protostorica di monte Petrino di Olga di Marino;
  • Strutture territoriali della Campania settentrionale romana. La gens Papia e il caso del Pagus Sarclanus di Luigi Crimaco;
  • Un caso di studio sul fenomeno dell'incastellamento nel bacino tra Volturno e Garigliano tra altomedioevo e bassomedioevo (secc. VIII-XVI). La Rocca Montis Dragonis tra documentazione scritta e strutture materiali di Francesca Sogliani;
  • La Rocca Montis Dragonis. Le indagini archeologiche 2001-2005 nell'insediamento fortificato di Francesca Sogliani;
  • Il ruolo delle acque nell'insediamento fortigicato della Rocca Montis Dragonis. Lo studio delle cisterne di Angela Carcaiso;
  • Le tecniche edilizie dell'insediamento fortificato di Rocca Montis Dragonis di Alessandra D'Ulizia;
  • I rinvenimenti di ceramica romana nella Chiesa della Rocca Montis Dragonis: alcune considerazioni di Luigi Crimaco;
  • I reperti di età romana dalla Rocca Montis Dragonis di Stefano Mini;
  • La ceramica priva di rivestimento dalla Rocca Montis Dragonis di Maurizio Bilò;
  • La ceramica dipinta a bande dalla Rocca Montis Dragonis di Sonia Virgili;
  • La ceramica con rivestimento trasparente dalla Rocca Montis Dragonis diFrancesco Melia;
  • La ceramica con rivestimento opaco, la maiolica rinascimentale e la ceramica a lustro ìdalla Rocca Montis Dragonis di Viviana Antongirolami;
  • Maiolica monocroma bianca dalla Rocca Montis Dragonis di Veronica Montuoro;
  • I reperti numismatici e le medaglie devozionali dalla Rocca Montis Dragonis di Brunella Gargiulo;
  • Il restauro dei reperti provenienti dallo scavo della Rocca Montis Dragonis. Ceramica, vetro, metalli (bronzo, ferro, argento, oro), osso di Marianna Musella
  • I resti scheletrici dalla necropoli della Rocca Montis Dragonis: studio antropologico e paleopatologico di Alessandra Cinti

giovedì 8 gennaio 2015

Il Real Ponte Ferdinando sul Garigliano in un francobollo di Poste Italiane




Nel 1828-32 Luigi Giura Costruisce il ponte sospeso a catene di ferro sul Garigliano, un gioiello dell’ingegneria Napoletana, alla pari con la migliore tecnologia Europea. Con esso la strada di Roma supera il grande fiume del Mezzogiorno e unisce Roma a Napoli. Molte sono le ragioni che concorrono alla buon uscita dell’opera e tra esse la competenza degli ingegneri Napoletani organizzati nel Corpo dei Ponti e Strade, acquisita nella Scuola di Applicazione e nella consuetudine di lavoro collegiale. In tutta la piana, dai Ricorrenti di Suio al mare, specie nel punto in cui è attraversato dalla strada di Roma, il Garigliano ha un corso torrentizio con acque spesso travolgenti e minacciose, una grande sezione trasversale e un fondo compressibile, che rende difficili solide fondazioni alle pile ed alle spalle di un ponte stabile e duraturo. E’ opportuno evidenziare l’importanza del ponte e del suo recupero con un mirato intervento di archeologia industriale, del quale Luigi Giura e il fratello Rosario sono stati insigni protagonisti. Non a caso Luigi Giura sarà stretto collaboratore di Garibaldi, dopo il suo ingresso a Napoli. Non a caso l’epigrafe che lo ricorda nel recinto degli uomini illustri del cimitero monumentale di Napoli reca la firma di Matteo Renato Imbriani e quella apposta sulla facciata della casa avita in Maschito reca la firma di Giustino Fortunato.

Al Real Ponte Ferdinando, Poste Italiane spa su autorizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico, lo scorso 25 ottobre ha dedicato un francobollo nell'ambito della serie tematica "il Patrimonio artistico e culturale italiano". Nella serie oltre a quello dedicato al ponte, altri tre dedicati a Villa Nobel di Sanremo, Capanne celtiche di Fiumalbo e Costa dei Trabocchi.