La visita pastorale è tra gli
atti fondamentali della vita della Chiesa fin dalle sue origini. Il Concilio di
Trento (1545-1563) ne ha dato una rigorosa regolamentazione e ne ha fatto uno
strumento fondamentale della Riforma cattolica, uno dei momenti più alti e
importanti nella vita di una diocesi: anima
regiminis episcopalis, così afferma lo storico Gabriele De Rosa in Storia e visite pastorali nel Settecento
italiano, in Vescovi popolo e magia
nel Sud, Guida editori, 1983.
Con il Concilio di Trento venne stabilito, infatti, l’obbligo
per i vescovi a compiere frequenti visite pastorali alle comunità diocesane.
I vescovi siano tenuti visitar in propria persona o per mezo di visitatori la diocesi ogni anno, tutta, potendo, e quando sia molto ampla, almeno in doi anni. I metropolitani non possino visitar la diocesi de’ suffraganei, se non per causa approbata nel concilio provinciale. Gl’arcidiaconi et altri inferiori debbiano visitar in persona e con notario assonto di consenso del vescovo, e li visitatori capitolari siano dal vescovo approvati. E li visitatori vadino con modesta cavalcata e servitù, ispedendo la visita quanto prima, né possino ricever cosa alcuna, eccetto il viver frugale e moderato, il qual però gli possi esser dato o in robba, o in danari, dovendosi osservare il costume, dove non è consueto di non ricever manco questi. Che li patroni non s’intromettino in quello che toca l’amministrazione de’ sacramenti o la visita degl’ornamenti della chiesa, beni stabili ovvero entrate di fabriche, se per fondazione non gli converrà.Paolo Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, in Letteratura Italiana Einaudi
Giuseppe Crispino, vescovo di
Amelia, autore di un importante testo sulla materia, Trattato della visita pastorale, Roma, 1695, più volte ristampato,
scriveva che “il governo pastorale senza
la buona visita è un governo languido, un governo morto, che a nulla vale”.
La visita pastorale si
presenta, quindi, come una grande ispezione del vescovo sulle parrocchie e
sulla vita religiosa nella sua diocesi. Secondo il Trattato del Crispino, essa si svolge, per lo più, in forma solenne
e segue, con maggiore o minore fedeltà, lo schema di determinate istruzioni. La
visita è preparata dall’annuncio e dall’invio di questionari ai parroci che
devono riferire circa lo stato ecclesiastico e quello delle anime appartenenti
alla parrocchia.
Tutte le scritture relative
alla visita devono essere raccolte, secondo il Crispino, in un volume diviso in
due parti: la visitatio civitatis e
la visitatio diocesis; ognuna di queste
è divisa in sei capitoli che comprendono la visita locale (edifici, tetti, mura e pavimenti), quella reale (suppellettili ed arredi vari,
sacri e non) e quella personale del
clero. Altro capitolo deve dedicarsi ai decreti emessi in corso di visita o emanandi.
Altre due parti sono infine dedicate all’aspetto puramente economico con il
rendimento dei conti e l’eventuale indicazione di “atti giudiciali contro i delinquenti e contro i debitori dei luoghi pii”.
I vescovi sono tenuti a
custodire gelosamente le scritture relative alle visite ed a rendicontarne con
Relazioni ad limina la Santa Sede. Ma
non sempre gli atti relativi alle visite pastorali risultano ben conservati
negli archivi delle curie vescovili, specialmente in quelle diocesi dove
miseria, povertà e calamità naturali ne hanno resa precaria la vita, oppure in
quelle che in un ambito relativamente ristretto di tempo hanno subito più
cambiamenti territoriali: riordinamenti ecclesiastici, declassamenti,
accorpamento o addirittura soppressione di sedi episcopali, come si è
verificato con la diocesi di Carinola, soppressa ed accorpata alla diocesi di
Sessa Aurunca, a seguito della Bolla “De
utiliori …” emessa da Pio VII nel 1818.
Gli atti delle visite
pastorali e, in special modo, le Relazioni ad
limina assumono oggi un valore eccezionale in quanto contengono assai
spesso notizie, che altrove non si troverebbero, specialmente per gli anni
anteriori al 1800, e che riguardano non solo aspetti della storia ecclesiastica
e religiosa. Questi documenti diventano fonti importanti in quanto ci danno
notizia dei fenomeni popolari della pietà, delle tradizioni di culto, di
devozione e di obbedienza seguite dal gregge numeroso delle parrocchie, dal
popolo che affolla le chiese e frequenta le confraternite; tali documenti
consentono originali rilevamenti sociologici che sono premessa indispensabile
per una storia non ideologica, né intellettualistica della Chiesa e della
società civile e religiosa di una determinata epoca. Abbiamo detto storia
civile, perché negli Atti delle visite pastorali sono raccolti dati che
una volta rientravano nella statistica della vita della parrocchia:
popolazione, arti, assistenza. Il parroco doveva riferire al vescovo di tutto: se v’erano
pubblici usurai e chi fossero, quanti fossero i medici e i chirurghi, le
ostetriche, i librai, gli osti; doveva informare sulle rendite, le decime e i
benefici.
Il ricorso agli atti delle visite è indispensabile anche per la storia del costume, per conoscere consuetudini, superstizioni, feste.
Il ricorso agli atti delle visite è indispensabile anche per la storia del costume, per conoscere consuetudini, superstizioni, feste.
Eilen Power ha scritto, Vita nel Medioevo, Torino, 1966, dell’enorme importanza che
riveste la documentazione costituita dagli atti ecclesiastici medievali per lo
studioso moderno di cose sociali, quindi non solo per lo storico della Chiesa;
infatti, poiché nella sterminata documentazione archivistica medievale una
parte cospicua è rappresentata, specialmente dopo il Concilio tridentino,
proprio dagli atti delle visite pastorali, dai libri parrocchiali e dalle
Relazioni ad limina, appare evidente
come essi siano documenti preziosi per ricostruire l’ambiente storico e
sociale, non soltanto di una parrocchia o di una diocesi.
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