La conoscenza di un territorio e dei suoi valori identitari costituisce non solo il fondamento di un sentimento di appartenenza per le comunità che vi risiedono, ma anche il presupposto per un reale apprezzamento e per una consapevolezza del valore, collettivo e individuale al tempo stesso, del patrimonio culturale locale, oltre che una condizione essenziale per la sua tutela e per la sua rinascita economica e sociale.

Knowing a country and its identity values is both the basis for a sense of belonging for local communities and the prerequisite for an appreciation and a true understanding of the single and collective importance of the cultural and territorial heritage. It is, moreover, the necessary condition to promote its protection and economic and social revival.

mercoledì 4 dicembre 2013

L'olio di oliva delle "Terre Aurunche" nella cultura, nel folklore e negli usi

Raccolta delle olive fatta a mezzo di macchine con aste telescopiche e pettini scuotitori.
La produzione di olio è da sempre legata alle usanze e alle credenze popolari, se poi si considera che per molti anni essa ha rappresentato per talune famiglie l’unica fonte di ricchezza, ne discende il particolare attaccamento che ad essa è stato da sempre riservato.
Si può affermare che l’olivo rappresenta la coltura agraria più tradizionale e più espressiva del territorio in cui è radicata, la coltivazione dell’olivo è l’ultima coltivazione che subisce il fenomeno dell’abbandono; c’è quasi un rapporto sacrale che lega le genti delle terre aurunche e l’olio con tutto ciò che a questo è dedicato, si può affermare che l’olivicoltura è l’esempio tipico di coltivazione tradizionale famigliare; è come se fosse nel DNA delle genti avere un piccolo oliveto da coltivare dal quale produrre l’olio per il fabbisogno famigliare.
Tale è l’attaccamento con questo prodotto che un’usanza diffusa e addirittura ancora talvolta praticata vuole attribuire presagi funesti ogni qual volta si rompe un recipiente contenente olio e se ne perde il suo contenuto. Ciò è testimonianza del fatto che, appunto, l’olio era per alcune famiglie l’unica fonte di guadagno e quindi la sua perdita rappresentava una vera e propria perdita di ricchezza.
In alcune epoche addirittura l’olio veniva utilizzato anche come merce di scambio e nei matrimoni di campagna la ricchezza della sposa veniva valutata anche in base alla quantità di “staia” di olio che essa conferiva alla nuova famiglia come rendita annuale.


Lo "staio", misura per l'olio.

Un’altra prerogativa tipica della coltura dell’olio è il fatto che esso aveva appunto una unità di misura a sé, lo “staio” che corrispondeva a seconda della zona a 10 o 11 litri. Era una unità di misura di capacità quindi e non di peso e tale unità di misura veniva utilizzata solo per l’olio di oliva.

La raccolta delle olive e la loro frangitura ha rappresentato da sempre un evento che, più che il resoconto economico di un’annata agraria, scandiva un periodo dell’anno e dell’inverno in particolare dove si respirava aria natalizia nei frantoi che rappresentavano un punto di aggregazione locale di forte valenza sociale, almeno nel periodo di molitura.


Un vecchio frantoio oleario oggi conservato in una struttura alberghiera a Sorbello di Sessa Aurunca


Antico torchio oleario 

Al “povero” frantoiano, spesso anche commerciante di olio, veniva sempre attribuita la nomea di “imbroglione” non meritevole di fiducia, responsabile di chissà quale misfatto commerciale o di alchimia industriale, a tal punto che di sovente, e ancora oggi, taluni olivicoltori soprattutto anziani quando moliscono le olive seguono fisicamente il percorso dei loro frutti durante tutte le fasi dell’estrazione dell’olio negli impianti che oramai sono sempre meno tradizionali e sempre più moderni e simili ad impianti industriali, attenti affinché non vengano commessi furti o frodi con i loro prodotti.


Olive del cultivar “Sessanella"
  L’origine di questa varietà non è nota, è comunque abbastanza diffusa nei territori dei comuni di Sessa Aurunca, Carinola, Galluccio e Falciano del Massico.




sabato 16 novembre 2013

Teano: il convento di Sant'Antonio


La facciata della chiesa

La fondazione del convento di Teano risale alla prima metà del secolo XIV, quando i francescani Fra Martino da Campagna e Fra Nicola da Castellammare ne iniziarono l'edificazione autorizzata con la Bolla "Sincerae devotionis affectus" di papa Martino V del primo ottobre 1427.
Secondo un'antica tradizione, ripresa anche dal Gonzaga e altri cronisti dell'Ordine e della Provincia, il convento sorse per impulso di S. Bernardino da Siena che vi dimorò alcuni anni; infatti al primo piano del convento c'è una piccola cella nella quale pare abbia dimorato il santo predicatore; oggi trasformata in cappella. Anche il pozzo nel chiostro è chiamato "Pozzo di san Bernardino" perché scavato nel luogo indicato dal santo.
Nel 1508 il convento e la chiesa subirono sostanziali trasformazioni grazie alle generose donazioni della nobiltà e dei fedeli di Teano, il convento fu ampliato e furono edificati i tre piani superiori, solo il chiostro rimase intatto e le antiche celle, restarono adibite per depositi ed officine.
La totale trasformazione del convento ha rovinato il primitivo impianto, solo il chiostro quattrocentesco è rimasto intatto, tanto che lo storico dell'Ordine francescano P. Cirillo Caterino definì “gioiello fra i più belli dell’epoca del Mezzogiorno d’Italia”, interamente scolpito in tufo grigio locale, con i fasci di colonne separati dalle eleganti arcate ogivali mediante capitelli con ricca decorazione di figure zoomorfe e motivi vegetali è dello stemma della famiglia teanese Martino de Carles, grande benefattrice del convento.
La sorte di questo bellissimo chiostro non fu sempre lieta, durante il Seicento, tutte le forme di architettura medievale furono rivestite di stucchi.
La chiesa, dedicata a S. Antonio di Padova, divenne ben presto meta di ferventi pellegrini mentre il convento ospitò frati in numero sempre crescente; la festa di S. Antonio richiamò tanti pellegrini da dare origine alla famosa fiera tra le più importanti d'Italia per il commercio degli equini.
In pochi secoli al santuario furono aggiunte nuove fabbriche, come quella sulla sommità della collina, costruita nel 1742 da P. Benedetto Molinari da Teano ad uso dei pellegrini antoniani, mutato in seguito come studentato per giovani francescani e, in epoca di fusione, come collegio serafico.
Quest'ultimo ebbe un ruolo ben determinato nella storia della Provincia. Doveva servire di richiamo per i bambini della provincia che avessero la vocazione religiosa, avrebbero seguito il corso preparatorio (quinta elementare e prima media) per poi frequentare gli anni successivi ad Afragola.
Nel 1718 Gaetano Zarone, alla cui famiglia fu concessa la sepoltura al centro della navata che custodisce le spoglie del Vescovo Tommaso Zarone, fece erigere a sue spese il possente campanile.
Nel 1799 le truppe francesi del gen. Championnet saccheggiarono e incendiarono chiesa e convento, dando alle fiamme la splendida e importantissima biblioteca e la statua del Santo.
Il convento e la chiesa, dopo la fuga dei francesi da Napoli e la caduta della Repubblica Partenopea, furono ricostruiti a spese della nobiltà e dei fedeli di Teano e dei villaggi vicini. Nel 1856 M. R. P. Raffaele di Pozzuoli, allora Ministro Provinciale, scriveva che vi si era ricostruita un'importante biblioteca per la magnificenza del duca Caianiello.
Con la legge eversiva sulle congregazioni religiose del 1866 il convento di Sant'Antonio al demanio dello Stato, dal quale fu ceduto al Comune di Teano. I frati furono espulsi, solo riuscirono a permanervi con il compito di custodirlo, ma la politica anticlericale non consentì altro.
Nel 1897 i frati poterono riacquistare il convento e dare inizio al restauro, compiuto nel 1903 con la riconsacrazione della chiesa, per opera del Guardiano P. Valentino Barile, furono infine rifatti gli stucchi esterni della chiesa e del campanile.
Poco noto, ma di eccezionale importanza fu il ruolo del convento durante l'ultimo conflitto mondiale. In previsione dei bombardamenti su Napoli nel convento furono segretamente trasferiti ingenti fondi librari della Biblioteca Nazionale. Nel triennio 1962-65 iniziarono i lavori di riparazione dei danni di guerra, il convento fu rifatto in tutte le sue parti: arricchito di pavimenti e rivestimenti in marmo nei corridoi dei piani superiori; il piano terra livellato e pavimentato, il chiostro fu reso più armonioso e arioso. Particolare attenzione fu dedicata anche alla chiesa, troppo piccola per contenere le masse di pellegrini. Essa non potendo si estendere verso sinistra per la presenza del chiostro, fu ampliata nel 1963 eliminando le cappelle sulla destra, che furono trasformate in navata con due vani di apertura sul presbiterio. 
Attiguo alla chiesa, un campanile a pianta quadrata che si sviluppa su quattro livelli e termina con una cupola.



Il campanile
Il portale












martedì 10 settembre 2013

La Venere di Sinuessa esposta al Museo Archeologico di Paestum


La statua della Venere di Sinuessa
(foto di Salvatore Bertolino)


Esposta al Museo Archeologico di Paestum nell’ambito della mostra “Rosantico”, dedicata ai temi della natura e della bellezza che durerà fino al 31 ottobre 2013, la statua della Venere di Sinuessa che diviene così ambasciatrice in Italia delle "bellezze del Massico".
La statua in marmo, conosciuta come Venere (o Afrodite) di Sinuessa, fu rinvenuta nelle campagne di Mondragone nel 1911 durante alcuni lavori di sbancamento. Acefala, priva degli arti superiori, sicuramente una copia romana di un esemplare greco attribuito a Prassitele, rappresenta una figura femminile nell'attimo in cui esce dall'acqua. Il rinvenimento della statua nel territorio di Sinuessa è sicuramente da collegare alla presenza di una villa di Cicerone nella zona. 
Dopo il rinvenimento la statua è ospite del Museo archeologico di Napoli dove ha adornato le sale del Toro Farnese e quella delle Veneri. 
Nel 2006, per alcuni mesi, esaudendo un sogno impossibile dei cittadini mondragonesi, la statua della Venere fu esposta a Mondragone, ospite del Museo civico archeologico "Biagio Greco".
La mostra “Rosantico” allestita nel Museo archeologico di Paestum è dedicata al reimpianto della rosa nella zona dei templi. Insieme alla  statua proveniente da Sinuessa, anche reperti rinvenuti a Teano tra cui il vaso del Pittore di Afrodite e utensili di profumeria e cosmesi utilizzati dalle donne dell’antichità. 

domenica 7 luglio 2013

Valogno di Sessa Aurunca: i murales

Valogno di Sessa Aurunca





Valogno, un antico borgo, un piccolo paese alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina, frazione di Sessa Aurunca, in quella provincia che una volta si chiamava Terra di Lavoro; un paesello, segnato dal tempo,  a misura d’uomo con circa 150 abitanti, su un territorio di bellezze naturali, ulivi e querce secolari, poi castagneti, intervallati da ginestre che con il giallo della loro fioritura rompono la quasi monotonia del verde; un piccolo borgo dove passato e presente convivono senza fratture. Non ci sono grandi chiese, oltre alla parrocchiale intitolata a san Michele arcangelo, abbiamo notato una cappella dedicata a sant’Antonio ed un’altra a san Giuseppe, né monumenti famosi, ma il borgo si è trasformato in un museo d’arte pittorica all’aperto da quando belle pitture murali, realizzate da diversi artisti, ma in maggioranza dal maestro Salvo Caramagno, hanno rivestito le facciate delle case e sono rimaste a segnare il tempo, offrendosi agli sguardi attenti o distratti dei visitatori.
E’ stata una simpatica sorpresa scoprirlo, salendo verso Roccamonfina dal lato di Cascano.
Un modo, quello dei murales,  per portare nuova linfa e vita ai piccoli borghi dell’entroterra e farli scoprire dal turismo.
Valogno: un borgo che racconta se stesso con storie di briganti, magie, storia risorgimentale, antichi mestieri.


Valogno di Sessa Aurunca: i murales 


Valogno di Sessa Aurunca: i murales 


Valogno di Sessa Aurunca: i murales 

Valogno di Sessa Aurunca: i murales 

Valogno di Sessa Aurunca: i murales 

Valogno di Sessa Aurunca: i murales 

Valogno di Sessa Aurunca: i murales
Valogno di Sessa Aurunca: i murales