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Carinola, Palazzo Petrucci
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Al
tempo della congiura dei baroni, le sorti dell'Italia erano nelle mani dei
principi: il re di Napoli, Ferdinando o Ferrante, i papi -più sovrani
temporali che guida morale della Chiesa-, Lorenzo de' Medici a Firenze,
Ludovico Sforza a Milano, i duchi di Savoia e poi gli Estensi, i Gonzaga, i Malatesta, i Saluzzo, i Bentivoglio, i del Carretto... Nella
Repubblica di Venezia il potere era nelle mani del Doge, controllato dal
Consiglio dei Dieci, espresso dal patriziato iscritto nell'Albo d'Oro. Pace e
guerra dipendevano in larga misura dalla personalità dei singoli signori,
spesso dai loro capricci, dalle loro fobie. Perciò la nobiltà italiana era un
intrigo di matrimoni e di delitti: i due strumenti fondamentali per annodare e
sciogliere amicizie personali e alleanze politiche, fare e disfare dinastie e
Stati.
Re
Ferrante (o Ferdinando) d'Aragona, proclamato salvatore dell'Italia e dell'Europa per aver
cacciato i Turchi da Otranto (1481), godeva fama di giudice d'Italia quale continuatore della
politica di equilibrio scaturita dalla pace di Lodi (1454). Giunto al trono di
Napoli nel 1459, poco più che trentenne, sin da quando ne aveva dodici s'era
immerso nella vita militare e nelle lotte per il potere, al seguito del padre,
Alfonso il Magnanimo.
Cervello
e braccio della politica di re Ferdinando furono il suo segretario, Antonello
Petrucci, asceso da umili origini a principale consigliere del sovrano, anche
grazie alla fine educazione umanistica impartitagli da Lorenzo Valla e dal Pontano, e il conte di Sarno, Francesco Coppola,
geniale organizzatore del commercio napoletano, socio del re in numerosi affari
e dal quale ebbero impulso la lavorazione della lana e della seta, giunta ad
assicurare il pane a una buona meta dei napoletani.
L'operosità
dei due uomini venne ripagata da re Ferrante con la concessione di monopoli
commerciali e titoli nobiliari. Dei figli di Petrucci, i primi due divennero
conte di Carinola e conte di Policastro, il terzo arcivescovo di Napoli, il
quarto priore di Capua. Proprio questi fedelissimi uomini del re nel 1485
presero l'iniziativa di una nuova grande rivolta feudale, detta per tradizione
«congiura dei baroni».
Tra
i «congiurati» si contò il meglio della feudalità meridionale:
Giovanni
Caracciolo, duca di Melfi,
Pietro
di Guevara, gran siniscalco,
Andrea
Matteo Acquaviva, principe di Teramo,
Angilberto
del Balzo, duca di Nardò,
don
Antonio Genterelle, marchese di Cotrone,
Giovan
Paolo del Balzo, conte di Nola,
Carlo
di Melito e decine di altri feudatari che avevano alle spalle secoli di lotte
per la difesa dei loro privilegi. Insieme a loro Francesco Petrucci, conte di
Carinola e Giannantonio Petrucci, conte di Policastro, i figli di
Antonello Petrucci.
La
vera testa della congiura fu però la famiglia dei Sanseverino, che da secoli
covava il tarlo della ribellione. Duecento anni prima, i Sanseverino s'erano
messi contro l'imperatore Federico II, che li aveva sterminati. L’unico
sopravvissuto si schierò con gli Angioini: ma i suoi discendenti non tardarono
a combattere il ramo durazzesco degli Angiò.
I
congiurati contavano su due aiuti fondamentali: il papa e la città dell'Aquila,
la seconda del Regno, ove i Camponeschi guidavano la rivendicazione comunale di
antiche «libertà» (cioè privilegi) contro il potere centrale. All’azione i
baroni furono spinti dal timore di perdere l’ultima possibilità di rovesciare
il re. Il 7 agosto 1484 in una locanda tra Bagnolo Mella, presso Brescia, era
stata, infatti, stabilita la pace tra la Repubblica di Venezia e il duca di Ferrara,
Alfonso d'Este. La «guerra di Ferrara» — che aveva messo in luce l'efficacia
delle diaboliche artiglierie ducali contro il naviglio della Serenissima —
aveva scosso gli equilibri della penisola, scatenando gli appetiti: un rischio
troppo grosso per tutti, soffocato dall'intesa tra Ludovico il Moro di Milano,
Lorenzo il Magnifico, Ferdinando di Napoli. Il focoso papa Sisto IV si era
quindi visto costretto alla pace. Il suo maggior beneficiario fu proprio il re
di Napoli, che così ottenne la restituzione di Gallipoli — già in mano veneziana
—, da aggiungere a Otranto, che fu strappata al Turchi dal figlio, Alfonso duca
di Calabria.
Per
i baroni era dunque l’ora d'agire, prima che fosse troppo tardi. Fu però
proprio nell'ora dell'azione che i feudatari si rivelarono incapaci, più che abili politici.
Essi, infatti, non
raggiunsero mai un vero accordo, né trovarono un’unica strategia. Parte puntò
sul solito remoto e annoiato Giovanni d'Angiò, scontentando i feudatari
comunque legati a interessi aragonesi; altri confidarono nel secondogenito del
re, Federico; taluni rimasero dubitosi, badando ai propri vantaggi di bottega. Neppure il prefetto di Roma e strumento del
papa, Giovanni della Rovere, unito a doppio filo con i Sanseverino, riuscì a
trovare il bandolo di una rivolta che rimaneva allo stato di caotica
ribellione.
I congiurati continuarono ad avanzare in
ordine sparso, ma, come osservò il primo e acuto storico della congiura, Camillo
Porzio,
si è
per lunga esperienza conosciuto che le guerre che commuovonsi con le forze di
molti capi, arrecano agli assaliti più spavento che danno, conciossiaché la
moltitudine, l’egualità e la diversità de' fini che gli induce a guerreggiare
possono infra di loro agevolmente produrre differenze.
Di
tutt'altro tenore fu la risposta del re, il cui braccio militare era Alfonso di
Calabria, suo figlio, un principe che sarebbe piaciuto a Machiavelli per la
spietata fermezza spesa nella difesa dello Stato, senza alcuna remora, giacché
— dice il Porzio — avendo superato d'un tratto qualsiasi misura nella crudeltà,
giudicava che nulla ormai gli fosse proibito. La spietatezza, del resto era
l'unico strumento col quale i sovrani potessero sperare di stabilire la loro
autorità dinanzi a sudditi ribelli in un’età che, a causa della diffusione
delle armi da tiro, stava lentamente modificando i tradizionali rapporti di
forza tra principi e sudditi. Alfonso riuscì a tenere in scacco il nemico più
pericoloso, Roberto Sanseverino.
Lo
scontro decisivo non ebbe luogo nel Reame di Napoli, bensì a Montarlo, nello Stato
della Chiesa, tra Orvieto e Acquapendente (7 maggio 1486). Li, validamente
appoggiati da Virginio Orsini e da truppe di Ludovico il
Moro e di Lorenzo il Magnifico, gli Aragonesi ebbero la meglio su Roberto
Sanseverino. All’interno del Regno la rivolta si frantumò in una serie di
piccoli scontri, spesso d'esito incerto. La stessa durata del conflitto — come
spesso accade — fini per giovare a chi aveva più risorse, cioè al re: che
poteva durare più a lungo e aveva una sola linea di condotta, mentre tra i
baroni i contrasti divennero insanabili.
Fuggito
Federico, figlio di re Ferrante, da Salerno, dove era tenuto prigioniero dei
baroni che invano avevano sperato di contrapporlo al padre, con gli altri
figli, Francesco, Cesare e Ferrandino, re Ferdinando ebbe mano libera contro i
congiurati. In suo soccorso giunsero anche truppe dalla Sicilia, da Ferdinando
il Cattolico, re di Spagna, interessato a sostenere la dinastia, consanguinea,
degli Aragonesi, e da Mattia Corvino, re d'Ungheria, la cui moglie. Beatrice d'Aragona,
figlia di re Ferrante, aveva fatto di Budapest un fiorentissimo centro di
cultura umanistica.
Arrestato
per complicità nella congiura, Giannantonio Petrucci, conte di Policastro,
imparentato con i Sanseverino per aver sposato Sveva Sanseverino, figlia del
conte di Lauria, fu condannato a morte e giustiziato il 13 novembre 1486 insieme col
fratello, conte di Carinola: sei mesi prima del padre, affinché quest'ultimo
assistesse alla rovina della sua famiglia e assaporasse sino in fondo
l'implacabile vendetta del re, da lui tradito.
Giannantonio
fu decapitato. Peggiore fu la sorte del fratello Francesco, conte di Carinola,
giustiziato lo stesso giorno.
Data la sentenza, narra Camillo Porzio, non ordinò Ferdinando che
in un dì morissero tutti o perché dividendo quella rigida giustizia venisse in
più fiate a spaventare gli uomini o perché volle mostrare venirvi forzato.
Sicché a tredici di novembre dell’ottantasei fe’ morire li conti di Carinola e
di Policastro senza aver punto riguardo alla dignità che tenevano o all’essere
stati suoi servidori antichi e famigliari. Perciocché il conte di Carinola
gridandogli avanti il banditore la qualità del suo fallo fu per li più
frequenti luoghi della città da una coppia di buoi strascinato e poi in sul
mezzo del mercato scannato ed in più pezzi diviso lungo tempo avanti le
principali porte di Napoli obbrobriosamente rese testimonianza della leggerezza
ed infedeltà sua. Nè poté in guisa alcuna la procurata affinità degli Orsini
non che campargli la vita ma né l’infamia della morte alleggerirgli i quali
intenti col re per li freschi servigi a nuovi meriti l’uno e l’altro dovettero
trascurare e rade volte avviene oggidì che l’obligo del parentado al proprio
comodo prevaglia. Al conte di Policastro fatta che fu mozzar la testa fu
conceduto a frati Domenicani che alla cappella del padre lo riponessino.
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