Il Pantano di Mondragone, con
i fondi adiacenti, costituiva un’altra tenuta di caccia dei sovrani. Essa si
estendeva sui terreni dei comuni di Mondragone e di Carinola, per i quali la
Real Casa pagava annualmente un fitto. Nella zona vi era anche il Bosco della
Pineta che, pur essendo di proprietà del marchese di Pescopagano, era riservato
alle cacce reali. La selvaggina di queste terre paludose era costituita
soprattutto da cinghiali e mallardi.
Dal rapporto stilato nel febbraio
nel 1766 da Angelo Palmieri, si apprende che «quelle reali cacce (Mondragone)
sono in ottimo stato» e che «i Paesani che meneno a caccia di volatili» sono
stati diffidati dall’avvicinarsi alla zona del Pantano.
La sottrazione di decine di migliaia
di ettari agli usi produttivi era motivo di malcontento tra le popolazioni
interessate che, inoltre, vedevano in tal modo ridotti i loro diritti di caccia,
fondamentale fonte di integrazione alimentare.
Gli stessi proprietari dei
terreni limitrofi venivano limitati nella effettiva disponibilità delle loro
tenute, per la regola del “miglio di rispetto”. Si pensi ad esempio che oltre
all'ovvio divieto dell'esercizio venatorio, era loro imposto, onde evitare
disturbi alla selvaggina, di legare al collo degli eventuali cani di proprietà
un legno della lunghezza non inferiore a due palmi.
In
definitiva, chi aveva la sfortuna di essere titolare di terre all'interno della
circonferenza di un miglio dal perimetro delle reali cacce cessava, di fatto,
di essere padrone del tenimento senza per questo venire esentato dal pagamento
della fondiaria.
Bisogna
attendere l'anno 1830, quando alla morte di Francesco I, divenne Re Ferdinando II, suo figlio, e furono per suo ordine abolite le reali
cacce di Persano, Venafro, Mondragone e del real Demanio di Calvi, con
lo scopo di promuovere l'agricoltura e la pastorizia, restituendo così ai
proprietari i terreni che erano tenuti in fitto dalla Corte.
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