La conoscenza di un territorio e dei suoi valori identitari costituisce non solo il fondamento di un sentimento di appartenenza per le comunità che vi risiedono, ma anche il presupposto per un reale apprezzamento e per una consapevolezza del valore, collettivo e individuale al tempo stesso, del patrimonio culturale locale, oltre che una condizione essenziale per la sua tutela e per la sua rinascita economica e sociale.

Knowing a country and its identity values is both the basis for a sense of belonging for local communities and the prerequisite for an appreciation and a true understanding of the single and collective importance of the cultural and territorial heritage. It is, moreover, the necessary condition to promote its protection and economic and social revival.

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sabato 25 maggio 2024

Luigi Vanvitelli a Mondragone



 

A distanza di circa 270 anni, Luigi Vanvitelli è di nuovo a Mondragone e questa volta non nelle rinomate cave di marmo che lo videro protagonista insieme ai più abili cavatori dell'epoca, bensì nel Palazzo Ducale  che nelle linee essenziali ricorda la sua architettura. 

Luigi Vanvitelli ritorna a Mondragone con una Mostra itinerante in occasione del 250° anniversario della sua morte organizzata dalla Pro Loco di Mondragone, dalla Pro Loco Rocca del Drago e dal Comitato Provinciale UNPLI APS di Caserta che permetterà ai visitatori di approfondire ed ammirare l'architettura e l'arte di un grande maestro del Rococo, attraverso un percorso espositivo che ne racconta la vita e le opere: dalla Reggia di Caserta alla Casina del Fusaro, dall'Acquedotto carolino alla Chiesa di san Francesco da Paola in Napoli, tanto per citarne solo alcune.

La Mostra rappresenta anche l'occasione per ricordare che Luigi Vanvitelli fin dal 1754, impegnato nella costruzione della Reggia di Caserta, era solito visitare insieme con l’abate Vaccarini, altro grande architetto palermitano, le cave di S. Mauro e di San Sebastiano in Mondragone, dove lavorò uno dei più bravi cavatori dell'epoca, Burrino Benedetto Belli, originario di Urbino, che aveva vinto l’appalto dello “scavo e taglio” delle pietre  il 26 luglio 1761 «da terminare quando piacerà al suddetto regio architetto». Successivamente nel 1767 lo stesso Benedetto Belli ebbe l’appalto per sbozzare le colonne della Cappella Palatina della Reggia che furono estratte in marmo giallo dalle cave di Mondragone.

In una lettera manoscritta del 14 agosto 1767, diretta a S. E. Neroni Intendente Generale dei Reali Stati di Caserta, l'architetto Luigi Vanvitelli così si esprime circa la valenza tecnica del Belli: 
Rispetto alla cava di Mondragone un certo Corsi di Carrara, che travagliò per il Can.co Avellino, l’anno passato voleva esibire a prezzo minor dei Burrini la cavatura; ma avendoli io detto che li pezzi grossi che cavò al Canonico Avellino erano belli in apparenza, inutili però in sostanza, perché tutti fessi e pelati, a cagione che aveva adoperato le mine con la polvere; ed all’opposto li Burrini adoperavano il sugo della braccia, e perciò riescano i pezzi saldi e sinceri, secondo mi occorre singolarmente per le colonne della Cappella se ne partì a capo chino, benché spinto dal fiscale. 
Manoscritti di Luigi Vanvitelli nell'Archivio della Reggia di Caserta 1752-1773, a cura di Antonio Gianfrotta, 2000. 










 


 

 Così scriveva, quasi un secolo fa, esattamente nel 1927, Biagio Greco nella sua Storia di Mondragone:

Sono state rinomatissime le cave di marmi, che costituirono e sono tuttora il decoro e lo splendore della Reggia di Caserta e di Napoli e della chiesa di San Francesco da Paola coll’imponente porticato.Ora, per accidia dei dirigenti, le cave di San Mauro e di San Sebastiano sono quasi del tutto abbandonate. E' deplorevole che un cespite cosi cospicuo, resti improduttivo.
e poi, di seguito, descriveva le caratteristiche dei marmi estratti dalle colline di Mondragone che nel corso dei secoli avevano vissuto momenti di grande splendore. 

venerdì 3 maggio 2024

Sessa Aurunca. Ponte Ronaco






Sessa Aurunca. Ponte Ronaco


Ponte degli Aurunci, o ponte Ronaco, collega la città di Sessa Aurunca, fondata nel secolo VIII a.C., e la Via Appia costruita dai Romani, edificato intorno al II secolo d.C., è composto da 21 arcate a pieno centro, in laterizio e reticolato, con pilastri in opera incerta intersecata da mattoni, e ancora oggi conserva la pavimentazione in basoli di epoca traianea. 

In quei tempi, l’orografia della zona richiese una notevole soluzione ingegneristica, capace di superare l’ampio vallone percorso dal Rio Travata. Durante il corso degli anni sono stati molteplici i ritrovamenti tombali risalenti anche all’epoca pre-romana, andati distrutti o inglobati in moderne strutture.




Sessa Aurunca. Ponte Ronaco



Così ne parlava, nel 1939, Giuseppe marchese di Pietracatella Ceva Grimaldi nella sua opera Considerazioni sulle pubbliche opere della Sicilia di quà dal faro dai Normanni fino ai nostri tempi


Proseguendo il viaggio si arriva al Garigliano, sulla quale passava la via Appia sopra nobil ponte. Il nostro Liri, che secondo Giustiniani doveva passare per sotto Sessa Aurunca, dove ancora oggi fluisce dell’acqua, ha un magnifico ponte, intatto, chiamato Ponte-ronaco.

Esso ha ventuno arco, e non già 24, come dice il Pratilli. La lunghezza dal primo arco sino all’ultimo è di 650 palmi, oltre di 110 altri palmi di tenuta, o sia catasto ne’ suoi estremi. La larghezza poi è di soli palmi 21. La fabbrica è tutta vestita di mattoni, ognuno di palmi due e quarto di lunghezza. I pilastri sono di fabbrica reticolata, val quanto dire non gran tempo introdotti prima di Augusto, ed i loro pedamenti veggonsi già di fabbrica a getto eseguita nelle casse, per cui non può non dubitarsi di essere stata l’opera eseguita in tempo che vi passava il fiume.  

 



Sessa Aurunca. Ponte Ronaco





Sessa Aurunca. Ponte Ronaco

E più recentemente, 

Francesco Pistilli, Recensione a "La struttura antica del territorio di Sessa Aurunca. Il ponte Ronaco e le vie per Suessa", in Archivio Storico di Terra di Lavoro, vol XII - anno 1990-1991, Caserta 1992


Esempio notevole nell’articolata tipologia delle opere pontiere romane, il ponte-viadotto sessano, presumibilmente costruito alla fine del I secolo d.C. o nei primi anni del II secolo, presenta una imponente successione di ben 21 arcate per una lunghezza di circa 176 metri e 6 di larghezza, che non trova riscontro in altre opere coeve ancora in situ né in Campania, né in Italia. La continuità d’uso attraverso i secoli ha determinato molto probabilmente la sua conservazione, agevolata dalla solida struttura muraria e dall’assunzione di funzioni nuove , con i conseguenti adeguamenti alle mutate condizioni dell’area non più idonea ai grandi traffici viari dopo la crisi dell’impero romano e le trasformazioni naturali del sito.




Sessa Aurunca. Ponte Ronaco


Nel corso dei secoli molte arcate sono state tamponate per formare abitazioni, stalle e fienili, ma ciò nonostante, il ponte si presenta, malgrado il tempo e l’incuria dell’uomo, in discrete condizioni di conservazione.


A partire dai primi anni del 2000, sono stati avviati importanti lavori di restauro del ponte da parte della Soprintendenza Archeologica, lavori che purtroppo hanno incontrato parecchi ostacoli e vicissitudini. 




Sessa Aurunca. Ponte Ronaco

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venerdì 19 aprile 2024

Il Cristo Crocifisso di Scuola giottesca (dipinto, 1330 - 1331) nella Cattedrale di Teano

 


Il Cristo Crocifisso di Teano


Il Crocifisso su tavola, esemplato su un prototipo giottesco, si distingue per una fisionomia ablunga, una "nuova inclinazione della testa che rende particolarmente ombroso e morbido il trapasso tra mento e collo, nella particolare forma e trasparenza del perizoma", mosso dal vento lateralmente "e nel peculiare restringimento della fronte realizzato grazie ad una corona di spine e ad una frangia della stessa capigliatura". Una decorazione a tralci fogliacei orna i laterali della traversa.

Così lo descrive la scheda del Catalogo Generale Beni Culturali.

Il magnifico crocifisso, un dipinto ad olio su tavola (1330-1331), venne rinvenuto fra le rovine della chiesa Cattedrale di Teano, semidistrutta dalle incursioni aeree del 1943, e venne restaurato dalla Soprintendenza di Napoli.

Attualmente è esposto nell'abside centrale della Cattedrale di Teano.


Il crocifisso di Teano, attribuito nel 1960 da R. Causa, a Roberto Oderisi, è stato successivamente dal Bologna ascritto all'attività del Maestro di Giovanni Barrile, (in via ipotetica identificato con Antonio Cavarretto), maestro la cui formazione sarebbe stata legata alla presenza di Giotto e della sua équipe a Napoli (il Bologna attribuiva infatti al nostro anche alcuni frammenti di affresco di un finestrone della Cappella Palatina in Castelnuovo, ove in contemporanea aveva lavorato Giotto, un affresco pauperistico-angioino nella Chiesa di S. Chiara, ecc.) e del quale evidenziava forti paralleli con il "Maestro delle vele". "Tutto il dipinto è infatti tessuto con la stessa intelligenza acutamente pittorica [---] dimostrando attitudini veramente notevoli a costruire la forma per mezzo di un'analisi puramente luministica della sua consistenza esistenziale nell'atmosfera e mediante un processo di unione del colore affatto giottesco, che produce un risultato altamente veridico". Il Bologna avanzava inoltre, per il crocifisso in questione, la datazione 1331, in corrispondenza della nomina di Bertrando del Balzo, feudatario di Teano, giustiziere e maresciallo del Regno da parte di Roberto d'Angiò del comando delle truppe guelfe in Toscana al tempo della discesa di Giovanni di Boemia. Il Leone de Castris riprende la ricostruzione dell'attività del Maestro di Giovanni Barrese, operata del Bologna ha evidenziato la stretta affinità tra un gruppo di crocifissi, (quello di Teano; di Ognissanti).

Dalla scheda del Catalogo Generale dei Beni Culturali.





Il Cristo Crocifisso di Teano






Il Cristo Crocifisso di Teano





Il Cristo Crocifisso di Teano
Catalogo Generale dei Beni Culturali



Nell'anno 2015 il Cristo Crocifisso e la Città di Teano furono parte del circuito “Giotto – L’Italia ed i luoghi”, un progetto del Ministero dei Beni Culturali realizzato nell’ambito di Expo 2015.
Dieci città in 35 meravigliose tappe con un unico filo conduttore "Giotto e la scuola giottesca", da Firenze a Milano, Padova, Rimini, Roma, Assisi, Perugia ed infine Teano per giungere fino a Napoli.

Giotto, infatti, lavorò a Napoli dal 1328 al 1333, su incarico di Roberto D'Angiò.

Sono pure in questa città alcune pitture di man propria di Iocto, come è nella ecclesia delle monache di Santa Clara: quale ecclesia è tutta pinctata di sua mano”.

Pietro Summonte 

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Foto: Salvatore Bertolino

Masseria de' Ciocchi a San Ruosi di Carinola






Carinola, borgo San Ruosi - Ceraldi
Portone della Masseria Ciocchi


La Masseria Ciocco o Ciocchi, dal nome dei nobili ‘proprietari’,  appartenenti al patriziato Nolano, che più ne hanno segnato storicamente  l’evoluzione e la caratterizzazione degli spazi, è sita nel borgo di San Ruosi-Ceraldi ( altrimenti detto, di Sant’Anna ), a solo pochi chilometri da Carinola.  Come molti altri siti, molti dei quali ancora poco noti persino alla critica, essa  si configura come una masseria di sicuro interesse storico e culturale lungo lo straordinario itinerario storico-artistico costituito dal cosiddetto Real  Cammino, strategica infrastruttura viaria risistemata, e in parte tracciata  durante il vice-regno Spagnolo ristrutturando parzialmente un’antica strada  romana che iniziando sostanzialmente dalla cosiddetta Scafa del  Garigliano, giungeva fino a Napoli. 

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La strategica collocazione della masseria, posta su di una piccola  altura a diretto contatto con il Real Cammino e, soprattutto, la rinomata  fertilità dell’Agro Falerno cui la stessa appartiene, ha reso partecipe la  struttura, nel corso dei secoli, di un lento processo di stratificazione che, com’è noto, a diversi livelli ha coinvolto l’intera circoscrizione territoriale, sin  dai tempi antichi. Non diversamente ad altri luoghi della zona, infatti,  l’aggregato che tuttora contraddistingue il sito dei Ciocchi si caratterizza  come insieme di fabbriche e luoghi destinati alla produzione agricola, nel  tempo, solidarizzatisi nelle forme di un piccolo insediamento accentrato,  arretrato rispetto alla via d’accesso, nell’aspetto attuale, stanziatosi a partire dalla tarda età moderna intorno a una tipica fabbrica masserizia munita di  cappella e di alloggi per contadini e braccianti, oltre che di ambienti  necessari all’attività agricola e al piccolo allevamento. Questo primo  organismo complesso, a cominciare dal Settecento, subì poi un graduale  progressivo ampliamento, aggregando al suo intorno ulteriori organismi  masserizi, altresì configurati mediante la ristrutturazione e l’incremento dei  volumi funzionali pertinenti il primitivo impianto. In questo modo, almeno dal  primo Ottocento, il complesso, oltre ad aumentare notevolmente la sua  estensione, ha finito per configurare al suo ingresso una sorta di  piazza/slargo, sulla quale affacciano sia la chiesa sia gli ingressi degli  organismi masserizi, parzialmente aperta sulla strada di accesso. L’attuale complesso architettonico è il risultato, quindi, di interventi  attuati in tempi diversi, a giudicare dalle testimonianze residue, non anteriori  alla fine del XVII-primo XVIII sec.. 



Carinola, borgo San Ruosi - Ceraldi
Masseria Ciocchi


Il Casale di S. Ruosi, sin dalla metà del XVIII sec. il più piccolo dei  villaggi carinolesi, era in origine riunito a Ventaroli come Villa S. Ambrogio, o  S. Orosio, Santo cui era dedicata anche la locale cappella. Sin dal 1742 –  data del primo catasto della città di Carinola e dei suoi dieci casali, opera  non terminata per le tante irregolarità e imprecisioni registratevi e, per  questo motivo, ripresa e perfezionata nel 1752-53 con aggiornamenti fino al  1755 – in questo Casale risiedono e hanno proprietà, sia edilizie sia terriere, in  misura assai differente le famiglie: Ciocco – ricchi nobili locali distinti in più  rami, il più ricco dei quali proveniente dal casale di Cascano, con proprietà,  anche molto estese, coincidenti con terreni, anche “aratorij” e campestri,  uliveti, querceti e boschi, e diverse “case palaziate”, tutti sparsi nei vari casali  della città, soprattutto a Nocelleto e Ventaroli, bestiame e con benefici a S.  Ruosi in due cappelle (S. Anna e S. Maria della Libera); Ceraldo –  proveniente da Sessa, con ricche proprietà (terre, case, bestiame)  soprattutto a San Ruosi; Tramunti - trasferitisi per qualche  tempo, ma ritornati poi a San Ruosi nel 1755, quando Antonio Tramunti  (bracciale) acquista, sempre dai Ciocco, “una casa di 2 membri inferiori e superiori, con cortile e piccolo giardino continuo, giusta altri loro beni (cioè,  una casa di 6 membri, 2 superiori e 4 inferiori, con orto continuo) e via  publica “ - e Menna – con Tomaso con qualifica di campiere, proprietaria di un certo numero di piccoli appezzamenti, anche uliveti, e di alcuni capi di bestiame, nella stessa S. Ruosi, nonché di due case, di cui una, “di 20  membri, 9 superiori e 11 inferiori, vicina ai beni dei Ciocco, nello stesso  casale.

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I Ciocco vanno identificati con i primi, e inizialmente, unici proprietari  della masseria oggetto di studio, nonché cofondatori, insieme con l’altra  famiglia patrizia dei Ceraldo di Sessa, dello stesso casale di San Ruosi. A  costoro, distinti nei tre rami facenti capo a Raimondo, originario proprietario  della Masseria omonima, a Francesco, intestatario di altre proprietà nello  stesso villaggio, e al ramo di Cascano, appartenevano, difatti, la gran parte  delle terre della zona. In particolare, Matteo Ciocco, il cui sacello è ospitato  nella cappella di S. Anna, originariamente dedicata a S. Ambrogio, annessa  alla masseria Ciocco, con un’epigrafe datata al 1713, deve farsi coincidere  con il fondatore dell’insediamento masserizio, sorto tra la fine del XVII e i  primi del XVIII sec. 

Alla data di compilazione del rilevamento catastale  (entro il 1753) l’erede di Raimondo, Don Giuseppe Ciocco, risultava  proprietario per “sua abitazione di una casa palaziata di più e diversi  membri, superiori e inferiori, con quattro cortili, tre giardini continui e  Cappella sotto il titolo di S. Anna Jus Patronato di sua Famiglia, giusta li beni  delli eredi del quondam Matteo Tramunti, di Tomaso Menna, altri beni proprij  e via publica”. 




Carinola, borgo San Ruosi - Ceraldi
Cappella di S. Anna, jus patronato della famiglia Ciocchi


Di sua proprietà era pure “una casa di un solo membro  terraneo” che teneva affittata e di molti terreni in diverse località di S. Ruosi,  anche confinanti con le terre dell’altro ramo dei Ciocco, quelli di Cascano. Diversamente, l’altro ramo dei Ciocco, eredi di  Francesco, al tempo identificati con un altro Giuseppe Ciocco, risiedevano  a San Cipriano d’Aversa, ma mantenevano a San Ruosi, fuori dalla descritta Masseria Ciocco, diverse proprietà terriere (per un totale di 42 moggia,  confinanti con i beni Gentile e la via vicinale) insieme a una “casa palaziata  di più e diversi membri inferiori e superiori, che si tiene per abitazione del di  lui fattore”. Identicamente facoltosi, benchè meno dei Ciocco, erano i Ceraldo  di Sessa, proprietari di diverse “masserie di fabbrica” a S. Croce, Nocelleto e,  come Pompeo e fratelli, anche di una con territorio di moggia 100 e 15  proprio a San Ruosi, nel luogo detto la Masseria di Ceraldo, con il beneficio  nella vicina cappella rurale del casale detta S. Maria della Libera, ancora  oggi, benché fatiscente, riconoscibile nelle fabbriche all’estremo sud-ovest  della Masseria dei Ciocco, secondo quanto rappresentato nelle cosiddette  “minute di campagna” del Reale Officio Topografico.




Carinola, borgo San Ruosi - Ceraldi
Masseria Ciocchi


Il testo è tratto da:

Andrea Amelio, "RESTAURO E VALORIZZAZIONE della Masseria de’ Ciocchi San Ruosi a Carinola (CE)", Tesi di Laurea in Architettura, Seconda Università degli Studi di Napoli - Anno Accademico  2016/2017


Foto di Salvatore Bertolino

sabato 9 marzo 2024

SINUESSA. Una colonia romana



Sinuessa. Muro poligonale in blocchi di calcare

Sinuessa nacque nel 296 a.C. quando, con lo scopo di difendere il tracciato dell'Appia (che fin dal 312 a.C. collegava Roma con Capua, la principale città della Campania), l'agro Vescino e quello Falerno, di recente colonizzato, dalle incursioni sannitiche e per creare una solida difesa costiera del territorio direttamente controllato da Roma, fu deciso di dedurre due colonie romane: l'una, Minturnae, a breve distanza dalla foce del  Garigliano e a controllo del passaggio del fiume, l'altra Sinuessa, al limite estremo del Latium adiectum e a guardia dello stretto passaggio, pianeggiante che, fra le estreme pendici della catena del Massico ed il litorale, permetteva di penetrare nella piana campana.


Sinuessa. Decumano ovest-est 

Il nome di Sinuessa compare, oltre che in questa dizione, nella forma Senuisa in una iscrizione di età augustea, e anche nella forma Sinuesa.

Gli scavi non hanno riportato alla luce nulla che sia anteriore alla fondazione della città, mentre non mancano reperti del II secolo a.C.

Probabilmente da respingere è dunque la tradizione riportata da Livio, che sul sito di Sinuessa vi sarebbe stata una più antica città "greca", Sinope: forse si tratta di una costruzione erudita, finalizzata a nobilitare le origini della città.

"ubi Sinope dicitur Greca urbs fuisse"


Mario Pagano, SINUESSA Storia ed Archeologia di una colonia romana, 
Ed. Duomo Sessa Aurunca, 1990



Sinuessa. Decumano est-ovest 




Sinuessa. Fontanile con abbeveratoio




Sinuessa. Particolare del fontanile


Incombe per tutta la costa desolata e adusta il silenzio secolare, interrotto dal monotono frangersi delle onde sulla minutissima arena. Il suolo brullo, dal quale a stento spunta qualche sterpo, qualche erba striminzita e qualche giungaia, forma un povero manto che covre tanta desolazione, mentre il mare cristallino e intensamente azzurro tremula e scintilla sotto i raggi del sole, formando uno sfondo vivissimo a tanto quadro di morte. Le dune si accavallano e si allungano in lunga teoria per la costa sinuosa fin verso Formia a occidente e fin verso la punta di Miseno a oriente, come dorsi di dromedari in fila, dando la sensazione degli sterminati deserti africani. Sotto quelle dune, accavallatesi per forza dei venti e per i millenni, sotto quel suolo, posteriore alle dune, sterile e inospitale, e sotto quelle onde terse e cristalline, giace la vetusta città di Sinope, tramutatasi poi in Sinuessa. Lungo la costa marina, e pei campi circostanti e verso nord, affiorano appena ruderi di muraglie, capitelli di colonne, frantumi di pavimenti a mosaico, cocci di anfore, e per tutta la estensione il suolo è seminato di rottami di vasi, di mattoni, di lapidi, di marmi. Chi si aggira attonito per quella sodaglia, sente qui e là il terreno addensato suonare sotto i piedi, indizio di vuoto nel sottosuolo. Sulle dune e sulla spiaggia il piede affonda fino alla caviglia per la finissima sabbia, sotto la quale pur si trovano avanzi della città. Lo studioso, con la sua fantasia, ricostruisce, sulle poche e indecise notizie desunte dai classici latini, la città di Sinuessa, smagliante e splendente, vastissima, coronata da edifici, da portici, da anfiteatri e da templi maestosi; ove Orazio e Virgilio si incontrarono nel viaggio a Brindisi sulla via Appia, che intersecava appunto la città di Sinuessa [...]
Biagio Greco, Storia di Mondragone, vol.I, 1927




Sinuessa.
Mosaico dalla villa romana di san Limato lussuoso esempio di residenza suburbana




Sinuessa.
Mosaico dalla villa romana di san Limato lussuoso esempio di residenza suburbana




Sinuessa.
Villa romana di san Limato lussuoso esempio di residenza suburbana




Sinuessa.
Villa romana di san Limato lussuoso esempio di residenza suburbana





sabato 3 febbraio 2024

Le Matres Matutae






L'ex voto è la rappresentazione materiale di quella che 
per anni è stata definita "cultura subalterna" e 
contemporaneamente un mezzo per ricostruire 
la religiosità popolare e le tracce dell'uomo "immerso" 
nel confronto con la parte visibile del suo Sé, la sua anima.

Lucia Malafronte, Ex Voto, Edizioni Intra Moenia





Le Matres Matutae sono sculture in tufo raffiguranti donne sedute con in grembo uno o più bambini in fasce.

Le prime Madri furono rinvenute accidentalmente nei pressi dell’antica Capua nel 1845 (esattamente a Curti, fondo Patturelli), raccolte intorno ai resti di una grande ara in tufo.
Solo tra il 1873 e il 1887 si effettuarono ricerche con finalità archeologiche che portarono alla luce un numero considerevole di statue e solo qualche elemento del tempio. Fra le statue un’unica scultura che, invece di reggere neonati tra le braccia, aveva in una mano una melagrana e nell’altra una colomba, simboli di fecondità e di pace. Quella scultura, che raffigurava la divinità tutelare del tempio, è stata individuata come una delle diverse rappresentazioni dell’antica dea italica dell’aurora e della fecondità muliebre: la Bona Dea, o Damia, come da rilevazioni di alcune scritture pare venisse chiamata nel territorio di Capua la “Mater Matuta
Le Madri, invece, rappresentano probabilmente degli ex voto considerato, un’offerta propiziatoria e un ringraziamento per la concessione del bene della fecondità. Nel tempo, per le sculture in tufo, si è consolidata la dizione Matres Matutae. 
La collezione conta oltre centotrenta statue, datate presumibilmente tra il IV e il I secolo a.C. è conservata presso il Museo Campano nel palazzo Antignano a Capua dove le è stata dedicata un'intera ala.
 
Testo dal web 
foto Salvatore Bertolino




Mater Matuta




Mater Matuta




Mater Matuta




Mater Matuta




Matres Matutae con opere d'arte in esposizione